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L'abiura (1633)

ritratto di galileo

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  • Ritratto di René Descartes. Olio su tela di Franz Hals, 1649 (Musée du Louvre, Parigi).
  • L'abiura. Probabilmente la copia destinata a Galileo (BNCF, Ms. Gal. 13, c. 8v).
  • L'abiura di Galileo Galilei davanti al Tribunale della Sacra Inquisizione. Dipinto di Giovanni Squarcina,1863-1870 (Venezia, Archivio-Museo della Dalmazia, Scuola Dalmata dei SS. Giorgio e Trifone).
  • Ritratto di Pietro Gassendi di ignoto pittore fiorentino (Galleria degli Uffizi, Firenze, Collezione Gioviana).

Io Galileo, figlio del quondam Vincenzio Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto personalmente in giuditio et inginocchiato avanti di voi Eminentissimi et Reverendissimi Cardinali, in tutta la Republica Christiana contro l'heretica pravità generali Inquisitori; havendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica et insegna la Santa Cattolica et Apostolica Chiesa. Ma perché da questo Santo Offitio, per aver io, dopo d'essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Sole sia al centro del mondo e che non si muova e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata et apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna solutione, sono stato giudicato vehementemente sospetto d'heresia, cioè d'haver tenuto e creduto che il Sole sia il centro del mondo et imobile e che la Terra non sia centro e che si muova.

Pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d'ogni fedel Christiano questa vehemente sospitione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta, abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d'heresia, lo denontiarò a questo Santo Offitio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi trovarò.

Giuro anco e prometto d'adempire et osservare interamente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo Santo Offitio imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da' sacri canoni et altre constitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.

 

Avvolto in una tunica bianca, simbolo di penitenza, e genuflesso in segno di umiliazione di fronte ai cardinali del Sant'Uffizio che «gli abbruciorno in faccia il suo libro», con queste parole, significanti di per se stesse, il 22 giugno del 1633 Galileo fu costretto a rinnegare non una fede, ma una verità, faticosamente conquistata col lavoro di un'intera vita, sconfitto su tutta la linea nella sua isolata e pervicace battaglia per l'indipendenza della ricerca scientifica. Al di là delle vendette e dei rancori personali, che pur vi ebbero un peso enorme, fra gli anatemi del papa e le congiure dei Gesuiti, la condanna di Galileo per sospetto di eresia e l'abiura delle sue convinzioni scientifiche creavano un precedente: da quel momento la Chiesa arrogava a sé il diritto di legiferare in materie estranee alle questioni di fede e sanciva la supremazia dei testi sacri e della loro interpretazione teologica su qualsiasi altra fonte di sapere. La ricerca di verità alternative a quelle di fede si era a quanto pare dimostrata molto più temibile di ogni forma di eterodossia religiosa, perché, lontana dall'opporre dogma a dogma, comportava un atteggiamento sempre critico verso le conoscenze acquisite e negava ogni valore alla tradizione, baluardo millenario del controllo delle coscienze. Quietarsi, non farsi domande, accettare. Questa l'idea dell'uomo cui era ora obbligatorio conformarsi per legge. Galileo lo aveva sperimentato sulla sua pelle, obbligato alla triste constatazione di come il suo Dialogo fosse «esecrando e più pernitioso per Santa Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino».

Che il processo sia stato formalmente ineccepibile o meno, alla fine poco importa, basato com'era sull'assunto fallace che le credenze di alcuni possano diventare norma per l'intero genere umano. E a dimostrare la falsità di quella premessa, fortunatamente c'era l'Europa. Fortunatamente per Galileo che per la fama internazionale di cui godeva ebbe risparmiate pene ancor più severe, e fortunatamente per il genere umano che ha potuto ugualmente allargare i propri orizzonti grazie alla libertà di ricerca che si godeva dove il potere della Chiesa di Roma era scarso o inesistente. Nei paesi in cui la scienza poteva essere scienza davvero, senza finzioni di comodo e coercizioni di credo, si era solidali con Galileo e se ne biasimava la condanna. Gli sguardi erano puntati in particolare sull'ordine dei Gesuiti, cui venivano attribuite le principali responsabilità della persecuzione. E non erano sguardi da poco: Cartesio, Grozio, Gabriel Naudé, Nicholas Fabri de Peiresc, Hobbes, Mersenne, Gassendi, per citare solo alcuni.

L'Italia, invece, per l'indebolimento di Galileo e il gusto tutto peninsulare di blandire il vincitore, seppur provvisorio, vide un gran fiorire di scritture anticopernicane dei più vari orientamenti: cattolici, aristotelici ortodossi in odore di libertinismo, professorucoli d'accademia (e di quella di Pisa, per giunta), tutti a una voce, e una voce astiosa, contro chi non aveva più alcuna possibilità di lottare. All'abiura e alle sue imposizioni, infatti, si aggiunse presto il divieto ingiunto dal Sant'Uffizio a tutti gli Inquisitori di rilasciare pareri favorevoli alla stampa di qualsiasi scritto di Galileo, si trattasse di opere nuove o di riedizioni. Divieto che, naturalmente, fu osservato solo in Italia, mentre all'estero proliferavano le traduzioni, perfino di quanto era rimasto inedito, come Le mecaniche o la Lettera a Cristina di Lorena. «A me convien dunque - si dorrà Galileo col morale a terra - non solo tacere alle opposizioni in materia di scienze, ma, quello che più mi grava, succumbere agli scherni, alle mordacità e alle ingiurie de' miei oppositori, che pur non sono in picciol numero». Impossibilitato a rispondere coram populo com'era sua abitudine, Galileo non poté rinunciare a farlo nel chiuso del suo studio, postillando coi coltelli affilati i volumi di chi lo attaccava facendosi scudo degli stessi argomenti di sempre, ormai irrimediabilmente confutati, e perseverava nell'opporre il proprio «modo di filosofare… fisico puro e semplice bene», dimostrato errato senza appello, al suo, «condito con qualche spruzzo di matematica», scientificamente fondato, anche se annichilito con la violenza. E da valvola di sfogo gli servirono amici e allievi, con i quali commentava le repliche dei suoi avversari, costellate a volte di veri e propri spropositi al di là di ogni buon senso, e si scambiava per lettera battute urticanti. Così Vincenzo Renieri lo teneva al corrente delle esternazioni di Scipione Chiaramonti. Lettore di filosofia allo Studio di Pisa, aveva fra l'altro motivato i suoi attacchi a chiunque non si adeguasse al suo indeformabile Tolomeo con l'argomento inoppugnabile che la Terra non avrebbe potuto ruotare in un moto perpetuo, perché, come tutti gli altri esseri viventi, si sarebbe stancata e avrebbe avuto a un certo punto bisogno di fermarsi per riposare. E il Renieri gli dedicava un sonetto in lode: ipotizzando che l'idea di quel suo cielo «di vetro intero intero», costituito di cerchi perfettamente rotondi e levigati, non potesse derivargli che dalla quotidiana osservazione dell'orinale, lo raccomandava addirittura al Sole, perché gli conferisse per dovuto premio «in Elicona / di midolla di trippe una corona». Ma bastava il sarcasmo beffardo, consolazione tutta toscana, a rialzare un uomo così avvilito?

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Scheda a cura di Sara Bonechi

Data aggiornamento 24/apr/2009