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Contro il moto della Terra (1612-1615)

ritratto di galileo

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  • Busto del Cardinale Roberto Bellarmino di Gian Lorenzo Bernini, 1621-1624 (Chiesa del Gesù, Roma)
  • Galileo Galilei dinanzi al Concilio dei Domenicani. Olio su tela di Friedrich Karl Hausmann, 1852 (Wallraf-Richartz-Museum, Köln).
  • Una copia della Lettera a Benedetto Castelli, sec. XVII (BNCF, Ms. Gal. 65, c. 8r).
  • Ritratto di Benedetto Castelli. Olio su tela. Copia dalla Collezione Gioviana (Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze).

È stato in Firenze un goffo dicitore, che si è rimesso a detestar la mobilità della Terra; ma questo buon huomo ha tanta pratica sopra l'autor di questa dottrina, che e' lo nomina l' Ipernico . Hor veda Vostra Eccellenza dove e da chi viene trabalzata la povera filosofia.

 

Sprezzante come al solito, Galileo alla fine del 1612 ragguagliava il Cesi su quanto gli scriveva Niccolò Lorini, domenicano, lettore di Storia ecclesiastica allo Studio di Firenze, secondo il quale «l'opinione di quel'Ipernico, o come si chiami» pareva ostare «alla Divina Scrittura». Ed a trabalzare la povera filosofia Lorini era in buona compagnia. Una vera e propria rete di avversari, «una certa sciera di malotichi e invidiosi della virtù e dei meriti» di Galileo (era Lodovico Cardi Cigoli che lo metteva in guardia) si riuniva sotto l'egida dell'Arcivescovo di Firenze Alessandro Marzimedici. Il regista dell'iniziativa era probabilmente l'ormai tristemente noto Lodovico delle Colombe che l'anno precedente aveva fatto circolare uno scritto Contro il moto della Terra, nel quale, a suo convinto dire, «squadernava l'epitaffio» del copernicanesimo, opponendogli tutti i passi della Sacra Scrittura che lo avrebbero fatto cadere in contraddizione. In barba alle facili ironie, Galileo fu spinto suo malgrado, e per la prima volta, sul sentiero scivoloso del confronto fra teorie scientifiche e testi sacri. E quando il sentiero è scivoloso, è facile scivolare. In una lettera inviata a Benedetto Castelli alla fine del 1613 esponeva la sua posizione: natura e Scrittura Sacra sono entrambe «Verbo divino»; ma mentre la natura è un linguaggio "di cose" che «non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli», la Scrittura è un linguaggio "di parole", utile per «accomodarsi alle capacità del vulgo», e necessita del tramite di un interprete, il quale non può fermarsi al senso letterale, specie quando il significato di queste parole paia contrastare con quello che «la sensata esperienza ci pone innanzi agli occhi». Vale a dire: la natura è il vero linguaggio divino, che non può essere assoggettato alla sua versione divulgativa, buona solo per chi non ha strumenti propri per intenderlo direttamente. Spiegava altrove Galileo: «i nomi e gli attributi si devono accomodare all'essenza delle cose e non l'essenza ai nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi».

 

La Lettera al Castelli iniziò a circolare manoscritta e si diffuse clandestinamente, travalicando subito i confini della ristretta cerchia galileiana. Arrivarono ben presto le denunce, e furono travalicati anche i confini del Granducato di Toscana. Il solito Lorini, a nome dei Padri del «religiosissimo convento di S. Marco» in Firenze, inviò una lettera alla Congregazione dell'Indice e, a un mese e mezzo di distanza, un altro domenicano, Tommaso Caccini, che da qualche tempo tuonava dal pulpito della chiesa di Santa Maria Novella contro la perversione copernicana, rese una deposizione spontanea davanti al Sant'Uffizio. Che i fili fossero mossi da un unico burattinaio è chiaro da una lettera inviata a Tommaso Caccini dal fratello Matteo per dissuaderlo da «pigliarsi gl'impicci d'altri» e rimproverarlo di «lasciarsi metter su, da piccione o da coglione, a certi colombi», malcelata allusione al Delle Colombe, che continuava a ordire le usuali trame insieme a personaggi di infimo livello culturale, come il vescovo di Fiesole Baccio Gherardini, che in un impeto di geocentrismo «proroppe con grandissima veemenza» contro Galileo (è lui stesso a raccontarlo) senza sapere che il padre della teoria eliocentrica «non era altramente un Fiorentino vivente, ma un Tedesco morto», Copernico.

 

Seguì un processo, e in diversi (tutti frati) furono chiamati a testimoniare. Le accuse contro Galileo, dirette o indirette, erano gravissime e riguardavano non solo la Lettera al Castelli, della quale fu inviata al Sant'Uffizio una copia forse addirittura contraffatta, ma soprattutto il suo convinto e motivato sostegno alla verità del copernicanesimo, i cui cardini principali si mirava a far dichiarare eretici. Il tutto inserito in un quadro torbido di devianti amicizie, come quella con Paolo Sarpi, «tanto famoso in Venetia per le sue empietà», o con «altri di Germania» (cioè gli accademici lincei di origine tedesca e quindi di terra protestante), e di tremende eresie che riguardavano la sfera strettamente teologica, messe in bocca a non meglio identificati suoi «discepoli» o a generici «galileisti».

 

Parallelamente alle vicende processuali, un dibattito si era acceso fra personalità di più alto livello: il punto di vista dello scienziato si trovava così opposto a quello dell'uomo di chiesa. Nel 1615, in una lettera ufficialmente indirizzata a Cristina di Lorena, la bigottissima Granduchessa madre di Toscana, Galileo insisteva nel difendere l'autonomia della ricerca scientifica rispetto alla sfera religiosa ed esortava a non «precludere la strada al libero filosofare circa le cose del mondo e della natura, quasi che elleno sien di già state con certezza ritrovate e palesate tutte». La Lettera a Cristina di Lorena (che seguì la stessa sorte della Lettera al Castelli restando prudentemente lontana dai torchi) era in particolare una risposta a Roberto Bellarmino, futuro santo, che aveva avuto gran parte nella discussione sul copernicanesimo. «Il dire che supposto che la Terra si muova et il Sole stia fermo si salvano tutte l'apparenze... è benissimo detto» - scriveva - ma sostenere che «realmente» il Sole stia al centro dell'universo e non si muova da oriente a occidente, mentre la Terra gli gira intorno, «è cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante». La posizione di Bellarmino puntava sulla sofistica distinzione fra ipotesi astratta e verità naturale, sulla quale la Chiesa si era arroccata fin dagli esordi delle nuove teorie cosmologiche, mirando a salvare, più che le apparenze dei fenomeni, l'attendibilità della Sacra Scrittura, visti gli errori capitali che in materia di scienza cominciavano a emergervi. Ormai l'esperienza diretta e le scoperte celesti di Galileo confermavano innegabilmente molte dimostrazioni matematiche di Copernico, mettendo a nudo le false evidenze di Aristotele e di Tolomeo in merito ai moti dei pianeti del sistema solare. La strada del semplice confronto teorico si rivelava perciò sempre più in salita: troppi e solo rocambolescamente contrastabili da un'ottica estranea alla fisica e all'astronomia erano gli argomenti a sfavore di una mera ipoteticità dell'eliocentrismo. Ma la Chiesa aveva ben altri strumenti per salvaguardare la propria intangibilità.

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Scheda a cura di Sara Bonechi

Data aggiornamento 16/gen/2008