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Convien al secol nostro abito negro... (1615-1616)

ritratto di galileo

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  • Galileo spiega la teoria del moto della terra dinanzi ai commissari dell'Inquisizione di Roma. Olio su tela di Carlo Felice Biscarra, 1859 (Castello Ducale, Aglié, TO).
  • Frontespizio della seconda edizione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico stampata a Basilea nel 1566 da Sebastian Henricpetri.
  • Galileo Galilei davanti al Tribunale dell'Inquisizione. Olio su tela di Cristiano Banti, 1857 (Collezione Elena Fragni, Milano).
  • Thyco Brahe nel suo osservatorio presso il Castello di Uraniborg, Isola di Hven (da Willem Janszoon Blaeu, Le grand atlas, ou Cosmographie Blaviane, en laquelle est exactement descripte la Terre, la mer et le ciel, à Amsterdam, chez Jean Blaeu, 1667).

Rivelatasi insufficiente una strategia difensiva fatta di pamphlet clandestini e di trattative sotterranee condotte per interposta persona, alla fine del 1615 Galileo decise di recarsi nuovamente a Roma per riscattare se stesso. Solo che per lui riscattarsi significava far accettare la verità delle proprie teorie, e Roma non offriva certo l'ambiente adatto, nonostante le apparenti aperture di qualche anno prima. Vi si viveva un clima sempre più oppressivo, sempre più chiuso alla libera discussione e impermeabile a ogni novità, un clima che Tommaso Campanella, ben addentro, vedeva «orrido» «d'ignoranze e paure», in tempi vestiti in «abito negro», un abito a lutto «moresco, notturno, rio, infernal, traditoresco», che sottintendeva una morte provocata e innaturale. In molti lo avevano sperimentato negli anni precedenti.

 

Accorato e preoccupato, l'ambasciatore toscano a Roma, Piero Guicciardini, inviava dispacci a Firenze per informare la Corte di come Galileo «s'infuocasse nelle sue openioni», avesse «estrema passione dentro et poca fortezza et prudenza a saperla vincere», di come fosse «molto pericoloso» per lui quel «cielo di Roma». Avvertiva, il Guicciardini, che Roma non era «paese da venire a disputare della Luna», e aveva ragione.

 

Il primo marzo 1616 in una seduta, all'apparenza quasi privata e familiare, svoltasi in casa del Bellarmino, la Congregazione dell'Indice emise il proprio verdetto. Fu proibita la Lettera sopra l' oppinione de' pittagorici e del Copernico del carmelitano calabrese Paolo Antonio Foscarini, reo di aver imboccato una via conciliazionista, tentando di dimostrare l'effettiva congruenza fra le teorie copernicane e molti passi della Sacra Scrittura. Furono sospesi «donec corrigantur», cioè fino ad avvenuta correzione, il De revolutionibus di Copernico e i Commentarii in Job di Diego de Zuñiga, un teologo spagnolo che aveva dato a un versetto di Giobbe un interpretazione filocopernicana. Il decreto, nonostante un precedente parere dei consultori teologici del Sant'Uffizio spingesse verso una condanna per eresia formale, dichiarava falsa, ma non eretica la teoria eliocentrica e Galileo non vi era nemmeno nominato. Gli toccò soltanto un'ammonizione verbale del cardinale Bellarmino, alla quale non ebbe altra scelta che sottomettersi. La sostanziale levità della pena fu dovuta, pare, all'intervento dei cardinali Bonifacio Caetani e Maffeo Barberini (il futuro papa Urbano VIII), contrari a tacciare di eresia la mobilità della Terra, ma vi giocò presumibilmente un ruolo il debito di papa Paolo V nei confronti del Granduca di Toscana Cosimo II de' Medici, fattivo sostenitore della sua elezione al soglio pontificio, che sarebbe stato indirettamente colpito da una condanna grave inflitta al suo Primario matematico.

 

Inizialmente ottimista, Galileo interpretò il verdetto della Congregazione dell'Indice come teso a colpire unicamente chi avesse sostenuto la congruenza fra copernicanesimo e Sacra Scrittura. «All'opera del Copernico stesso - scriveva sollevato a Curzio Picchena, Segretario di Stato del Granducato di Toscana - si leveranno 10 versi della prefazione a Paolo terzo, dove accenna non gli parer che tal dottrina repugni alle Scritture». Presto però l'ottimismo si smorzò. In una dichiarazione richiestagli da Galileo medesimo per sfatare le voci, fatte artatamente circolare dai suoi detrattori, di umilianti abiure cui si sarebbe dovuto sottoporre in Roma, il cardinale Bellarmino lasciava adito a pochi dubbi. A Galileo non era stata imposta alcuna abiura, né gli erano state comminate «penitentie salutari», ma «la dottrina attribuita al Copernico che la Terra si muova intorno al Sole et che il Sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente a occidente» era «contraria alle Sacre Scritture, et però non si poteva difendere né tenere». Nella Lettera a Cristina di Lorena Galileo aveva paventato l'eventualità che fosse «dannata per erronea questa particolar proposizione» del De revolutionibus, considerandolo «detrimento maggior per l'anime» che se fosse stato proibito l'intero libro, perché si sarebbe data l'«occasione di veder provata una proposizione, la qual fusse poi peccato il crederla». Ciononostante Galileo chiese e ottenne di restar ancora a Roma. La sua indole battagliera o, per usar l'espressione del sempre più agitato Guicciardini, il suo «humore fisso di scaponire i frati» lo costringeva, pur a rischio di cadere «in qualche stravagante precipizio», non solo a difendere l'indipendenza della ricerca scientifica, ma anche a pretendere giustizia, convinto com'era, e non a torto, di esser vittima di quelle «persecuzioni fratine», dalle quali voleva proteggerlo il Picchena. Scriveva:

 

lo sperare altronde la desiderata quiete sarebbe del tutto vano, sì per esser la invidia immortale, sì per haver trovato i miei nimici modo di travagliarmi impune, col mascherar se stessi di simulata religione per far apparir me spogliato della vera,

 

lasciando trapelare un senso di amarezza pari a quello provato qualche settimana prima per un incontro col suo principale accusatore, Tommaso Caccini, che lo aveva sdegnato con un «simulato pentimento» e gli aveva dato, nella conversazione, la riprova «non meno della sua grande ignoranza che di una mente piena di veleno e priva di carità».

 

Galileo rientrò a Firenze tutto sommato sconfitto, costretto di lì innanzi a combattere battaglie nascoste con l'arma spuntata di un copernicanesimo mutilo, in un'Italia dove nessuno - lamentava Sarpi - poteva vivere sicuro senza una maschera che lo proteggesse. Maschera che non celò solo gli uomini, ma anche i libri, emendati ostinatamente, per camuffare da ipotesi di comodo tutte le asserite verità scientifiche che avrebbero potuto far vacillare la credibilità del dettato scritturale.

 

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Scheda a cura di Sara Bonechi

Data aggiornamento 16/gen/2008