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Il processo (1633)

ritratto di galileo

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  • Galileo Galilei davanti al tribunale dell'Inquisizione. Olio su tela di Niccolò Barabino, 1888. Replica ridotta dell'affresco in Palazzo Celesia a Genova (Collezione privata, Genova).
  • Frontespizio dell'Indice dei libri proibiti nell'edizione del 1664 che contiene la proibizione del Dialogo di Galileo e la riammissione di Copernico dopo l'avvenuta correzione (Index librorum prohibitorum Alexandri VII pontificis maximi iussu editus, Romae, ex typographia Reverendae Camerae Apostolicae, 1664).
  • Un anziano prigioniero che raffigura molto probabilmente Galileo Galilei. Disegno acquerellato di François Marius Granet, sec. XIX (Musée des Beaux-Arts, Rennes).
  • Galileo in prigione. Dipinto di Bartholomé Esteban Murillo, sec. XVII. Ignota l'attuale collocazione dell'opera.

Dopo un viaggio pessimo, complicato al confine da una lunga e disagevole quarantena, Galileo giunse a Roma, ospite a Villa Medici, residenza dell'ambasciatore Niccolini. Il primo impatto fu rincuorante: nella villa era di fatto prigioniero, raccontava al Cioli, ma riceveva un «trattamento molto mansueto e benigno, e del tutto dissimile alle comminate corde, catene e carceri», che tanto aveva paventato. Era anche andato a trovarlo un incaricato del Sant'Uffizio, che si era intrattenuto con lui in piacevole conversare e lo aveva ascoltato parlare, dandogli coraggio con la sua «molta humanità». Ma era più difficile ingannare uno smaliziato ambasciatore che un anziano impaurito, e il Niccolini aveva avuto tutt'altra impressione: «si può tener per certo che sia stato mandato… per sentir quel ch'egli dica e come parli o come defenda le cose sua, per risolver poi quel che si deve fare o come proceder seco». In altre parole, una spia. E l'iniziale tranquillità di Galileo, che confidava in una soluzione veloce e indolore del caso, era smentita anche dall'atteggiamento del papa, sempre più freddo, distaccato e ormai incancrenito sulle sue posizioni, anche davanti ai tentativi di addolcirle che venivano dalla diplomazia toscana, e dal Granduca in persona. Galileo, colpevole di aver voluto «impor necessità» a «Iddio onnipotente», attribuendogli forzatamente la creazione di una Terra mobile (e in ciò recidivo e «mal consigliato» dal Ciampoli), riceveva già un trattamento di favore potendo risiedere a Villa Medici in attesa del processo, durante il quale, era inteso, non sarebbero state ammesse deroghe alla detenzione entro le mura del Sant'Uffizio: i tempi non sarebbero stati affatto brevi, ma né più né meno di quelli richiesti dalla procedura. Il Niccolini tacque a Galileo questi particolari per risparmiargli «un gran travaglio», ma presto dovette dargli la notizia della convocazione a deporre e del suo imminente trasferimento. Insistere sulla sua «poca sanità», raccontare di come «per due notte continue» avesse «gridato e rammaricatosi continuamente de' suoi dolori artretici», era servito soltanto a ottenere la promessa che gli sarebbero state assegnate delle stanze decenti, «fors'anche lasciate aperte». Lo strazio che abbatté il morale di Galileo turbò profondamente l'affezionato Niccolini, al punto da farlo seriamente preoccupare che ne potesse morire. Ma non riuscì a far altro che manifestare un dolore sincero: «veramente merita ogni bene, e tutta questa casa, che l'ama estremamente, ne sente una pena indicibile».

Galileo si presentò davanti al Sant'Uffizio, non una, ma tre volte nell'arco di circa un mese durante il quale visse recluso, ma, come promesso all'ambasciatore toscano che ne traeva sereni auspici, negli appartamenti del Procuratore Fiscale invece che nelle «secrete solite darsi a' delinquenti». A qualcosa erano serviti la sua rinomanza internazionale e i buoni uffici del Granduca di Toscana. Il processo, però, seguì una rotta a dir poco inconsueta. Fin dal primo interrogatorio, infatti, il contenuto del Dialogo vi ebbe un ruolo del tutto marginale. Galileo era stato abilissimo: non potendola provare, era riuscito a non asserire mai formalmente la verità dell'eliocentrismo, pur facendolo costantemente apparire come l'unica opzione plausibile, ed aveva sempre posto a contraltare la posizione contraria, descrivendo effettivamente le ragioni filosofiche e naturali, tanto per l'una, quanto per l'altra parte. Interrogato la prima volta, poté anche arrivare a sostenere (a dir il vero arrampicandosi sugli specchi e poco convinto lui stesso) di avervi mostrato «il contrario di detta opinione del Copernico», facendo vedere come le sue «ragioni» fossero «invalide e non concludenti».

Una commissione quasi identica alla precedente, dove solo il Padre Mostro era stato sostituito da un padre teatino, fu riunita per un'analisi ulteriore. A quale scopo? Agli atti del tribunale c'era già un esame approfondito e minuto. Se si fossero voluti trovare nel testo del Dialogo appigli formali che configurassero il reato di eresia, la fatica fu inutile, e non riuscì a portare oltre il veemente sospetto di una convinta adesione alle teorie copernicane. Per condannare Galileo bisognava avere altre carte da giocare. Se ne individuò la strada nella violazione di un precetto impostogli, si diceva, nel 1616, alla presenza dell'allora Commissario del Sant'Uffizio Michelangelo Seghezzi, col quale si vietava di tenere, difendere o insegnare in qualsivoglia modo, a parole o per iscritto, la teoria eliocentrica. L'aver pubblicato un libro che la esaminava nel dettaglio avrebbe contravvenuto alla seconda parte dell'ingiunzione, che risultava essenziale in previsione di una condanna. Fra le carte del processo c'era anche l'atto notarile che la ufficializzava, ma Galileo non rammentava di esser mai stato convocato di fronte a un notaio e, come si legge nel verbale dell'interrogatorio, tirò fuori «un foglio di carta scritto solo su una faccia con dodici righe, che inizia: ''Noi Roberto cardinale Bellarmino, havendo, etc…''». Solo questo ricordava: era la famosa dichiarazione che vietava di difendere o tenere, cioè di credere o dichiarare vera, la teoria copernicana, in quanto contraria alle Sacre Scritture, ma non faceva alcun cenno a insegnarla in qualsivoglia modo, a parole o per iscritto. Inaspettatamente i documenti erano due, discordi, e quello in possesso del Sant'Uffizio era un atto notarile ben strano, redatto da notaio ignoto, visto che il nome non vi compariva mai, mancante del sigillo e della benché minima firma, né del notaio, né dei testimoni né, ovviamente, di Galileo. Non fu mai pubblicamente esibito e sembrava più una minuta, se non, nella più malevola delle ipotesi, un falso appositamente confezionato. Di una scrittura regolare nessuna traccia. Era veramente esistito quel precetto?

Il processo stagnava. Viste le «varie difficoltà quanto al modo di proseguire la causa et incaminarla a speditione», scriveva Vincenzo Maculano, Commissario del Sant'Uffizio, a uno dei cardinali nipoti del papa, occorreva che Galileo confessasse. Continuando a negare «quello che manifestamente appariva nel libro da lui composto», si sarebbe reso necessario «maggior rigore nella giustitia», terminologia neutra e asettica, a significare nientemeno che la tortura. Ma non era strada percorribile con un personaggio di tale notorietà, oltretutto malmesso fisicamente. Il Maculano chiese e ottenne «la facoltà di trattare extraiudicialmente» con Galileo, lo visitò nella sua clausura, e dopo qualche ora di colloquio lo persuase a confessare, promettendogli in cambio una lesta liberazione. Era sicuro di avergli fatto «toccar con mano l'error suo», convincendolo «di haver errato et nel suo libro di haver ecceduto», così com'era sicuro che il tribunale, potendo mantenere la «sua reputatione», gli avrebbe potuto «usare benignità».

Ma non andò proprio così come il Maculano si aspettava. Galileo, infatti, convocato nuovamente, si dichiarò colpevole. Ma unicamente di un errore di stile. Del resto, in un sistema basato prevalentemente su cavilli formali e sofisticherie rituali, anche lui aveva diritto a usare le stesse armi per difendersi. Da tre anni, ammise, non vedeva più il suo Dialogo e aveva voluto verificare se contro alla sua «purissima intentione» gli fosse inavvertitamente «uscito dalla penna» qualcosa che avesse potuto crear equivoci. Il libro, a una rinnovata valutazione, gli era apparso «per il lungo disuso quasi come scrittura nova e di altro auttore», perciò - confessava «liberamente» - si era reso conto che il lettore, inconsapevole dei suoi obiettivi, avrebbe potuto farsi l'idea sbagliata che «gli argomenti portati per la parte falsa», quella copernicana (in particolare le macchie solari e le maree), «fussero in tal guisa pronunciati, che più tosto per la loro efficacia fussero potenti a stringere che facili ad esser sciolti». Un errore dovuto all'ambizione, a quella «natural compiacenza che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze», al voler apparire «più arguto del comune degli huomini in trovare, anco per le propositioni false, ingegnosi et apparenti discorsi di probabilità». Insomma, tutto era dipeso da un eccesso di virtuosismo e Galileo si diceva disposto a rimediare, inficiando quegli argomenti troppo stringenti con la maggior efficacia possibile. Tanto avevano potuto l'impossibilità di tollerare oltre la reclusione e la prospettiva della tortura che gli era stata fatta balenare. Quel giorno stesso Galileo poté tornare a Villa Medici, sempre segregato, ma fra amici.

Il Maculano, a sentire l'ambasciatore Niccolini, voleva chiudere il tutto presto e senza traumi: «dà… intentione… di volersi adoprare perché questa causa si stiacci e vi s'imponga silentio». Ma anche in questo caso non aveva fatto i conti giusti. In una terza deposizione Galileo ribadì la propria linea difensiva. Ma la relazione riassuntiva del processo, che ripercorreva tutto l'iter fin dal 1616, dava già un'idea chiara dell'indirizzo che si voleva prendere. Piena di falsità consapevolmente congegnate e di interpretazioni subdole dei documenti, ai fini di aggravare la posizione di Galileo, gli attribuiva opinioni a volte anche ai limiti del ridicolo, come che «realmente Dio rida, pianga, etc.» o che «i miracoli fatti da' santi non son veri miracoli».

Difatti, dopo due mesi di silenzio totale, si svolse al Quirinale una riunione del Sant'Uffizio, presente il papa, dove si ribadì la necessità di far confessare Galileo «sopra l'intenzione», ricorrendo, se del caso, anche alla tortura, perché il suo pentimento stilistico non aveva convinto. Già si era deciso di condannare il Dialogo, di ridurre a perpetuo silenzio la teoria eliocentrica dichiarandola eretica, di imporne a Galileo la pubblica ritrattazione ed infliggergli una carcerazione esemplare. Il Niccolini sapeva. Ma anche questa volta, impietosito, non parlò. A colloquio col papa tentò di stemperare gli animi, ma si scontrò col solito gelo falsamente paternalista. Galileo fu ancora interrogato e non scalfì la sua posizione di un millimetro: «io son qua per far l'obedienza, et non ho tenuta questa opinione dopo la determinatione fatta, come ho detto». Il giorno dopo fu letta la sentenza. Per aver lasciato nel suo libro, proibito all'istante, «indecisa et espressamente probabile» una teoria dichiarata contraria alla Sacra Scrittura, e quindi eretica, Galileo si era reso «vehementemente sospetto» di crederla vera, incorrendo perciò in tutte le pene «contro simili delinquenti imposte e promulgate». Il suo «grave e pernicioso errore» non poteva restare impunito, perciò lo si condannava alla ritrattazione delle sue presunte convinzioni, alla detenzione nelle carceri del Sant'Uffizio per un periodo da decidersi, e, va da sé, a recitare per i tre anni a venire «una volta la settimana li sette Salmi penitentiali». Tre fra i dieci cardinali componenti il tribunale del Sant'Uffizio non firmarono il decreto. Firmò invece il Maculano, più svelto nel promettere che nel sottrarsi poi ai voleri superiori. E a Galileo toccava ora bestemmiare la scienza.

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Scheda a cura di Sara Bonechi

Data aggiornamento 16/gen/2008