logo Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza

Le scoperte celesti e il ritorno a Firenze (1609-1610)

ritratto di galileo

precedente  successivo
  • Galileo Galilei mostra il telescopio al doge Leonardo Donato. Litografia (Collezione Francesco Bertola)
  • Autografo del Sidereus nuncius. La Luna disegnata da Galileo così come gli appariva al telescopio  (BNCF, Ms. Gal. 48, c. 28r).
  • Cannocchiale di Galileo: l'obiettivo estratto dal suo alloggiamento (Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze)
  • Galileo Galilei presenta il telescopio al senato veneziano radunato sul campanile di San Marco a Venezia. Affresco di Luigi Sabatelli, 1840 (Museo di Storia Naturale di Firenze - Sezione di Zoologia "La Specola" - Tribuna di Galileo).

Nell'immaginario collettivo il nome di Galileo è legato all'invenzione del cannocchiale. L'ultimo anno del suo soggiorno padovano, in effetti, era stato costellato di vicende legate alla costruzione di questo strumento: pubbliche dimostrazioni di fronte ai patrizi veneti e addirittura al Doge, richieste dai notabili di tutta Europa, ma anche rivendicazioni da parte di vari personaggi che se ne attribuivano il merito, commenti acidi e insinuanti. Il cannocchiale, di fatto, esisteva già prima che Galileo costruisse il suo primo esemplare, probabilmente nel 1609, né mai vennero da lui accampati particolari diritti di paternità. Solo che grazie alla sua perspicacia venne perfezionato e potenziato, al punto di poter travalicare il campo della mera stravaganza, uscire dalle camere delle meraviglie, o, per usare le parole di Galileo stesso, dallo «studietto di qualche ometto curioso», dov'era considerato alla stessa stregua di «un granchio pietrificato, un camaleonte secco, una mosca e un ragno in gelatina in un pezo d'ambra», o di «coselline», che avessero «per antichità o per rarità o per altro, del pellegrino». Il cannocchiale divenne a tutti gli effetti strumento di scienza. E non è tutto qui. Nelle mani di Galileo il telescopio, o, come si diceva allora, «l'occhiale», «il cannone», cessò di essere diretto solo verso «la chiesa de Santa Giustina de Padoa» o verso «quelli che entravano et uscivano di chiesa di San Giacomo di Muran», come raccontava, allibito di fronte alla prima dimostrazione, il senatore veneziano Antonio Priuli, e fu puntato al cielo. Galileo cominciò a osservare con caparbietà e metodo l'aspetto e i movimenti dei corpi celesti, visti fino allora solo ad occhio nudo, con risultati impensabili che avrebbero provocato un cataclisma nella concezione del cosmo, del mondo e dell'uomo.

 

Nel 1610 fu stampato a Venezia il Sidereus nuncius. Il messo siderale annunciava novità eclatanti in campo astronomico, riportando nei dettagli i risultati delle osservazioni telescopiche, effettuate quotidianamente e minuziosamente descritte. Galileo aveva studiato la Luna e non aveva trovato quella «superficie uguale, liscia e tersa», «uniforme e di sfericità esattissima», come era convinzione comune per i corpi celesti, ma «disuguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra, la quale si differenzia qua per catene di monti, là per profondità di valli». Aveva puntato il telescopio su Giove e vi aveva visto intorno quattro satelliti orbitanti. Aveva trovato nello spazio cosmico miriadi di stelle, invisibili a occhio nudo, che costituivano le nebulose e la Via Lattea. Galileo stesso definì queste scoperte «tante et di sì gran consequenze, che tra quello che aggiungano et quello che rimutano per necessità nella scienza de i moti celesti», si sarebbe potuto «dire che in gran parte sia rinovata et tratta fuori dalle tenebre». Ma quali erano queste «sì gran consequenze»? Quali «tenebre» sarebbero state spazzate via? Evidentemente i risultati di queste osservazioni corroboravano la tesi di un universo copernicano contro la struttura aristotelico-tolemaica del mondo, fin lì prevalentemente accettata. L'idea di una Luna affine alla Terra non solo negava la teoria aristotelica della differente natura dei corpi celesti rispetto ai terrestri, ma, facendo della Luna un satellite orbitante intorno a un centro, la Terra appunto, conduceva a ritenere che quest'ultima, avendo una medesima sostanza, avesse anche un analogo comportamento e orbitasse a sua volta intorno a un centro suo proprio. L'osservazione di una quantità spropositata di stelle mai viste prima metteva in crisi le piccole dimensioni dell'universo tolemaico e, pur senza minarne la finitezza, sostituiva l'angusta calotta dei cieli con uno spazio siderale amplissimo di ascendenza copernicana. Era poi divenuto palese che le «quattro stelle erranti intorno a Giove... tracciavano un giro intorno al Sole», muovendosi tutte «insieme con Giove»: erano, cioè, i suoi satelliti, e ruotavano contemporaneamente a lui, fenomeno la cui impossibilità era stata da sempre addotta dai tolemaici come prova di un sistema geocentrico. Dimostrato invece che non era affatto impossibile, lo stesso sarebbe potuto succedere alla Terra, che avrebbe benissimo potuto compiere una sua rivoluzione intorno al Sole accompagnata dal suo satellite, la Luna. Fra tutte, la scoperta dei satelliti di Giove era, perciò, quella di maggior impatto. E non a caso Galileo, che da tempo cercava la protezione di un principe per poter continuare i suoi studi senza l'obbligo dell'insegnamento, li chiamò Stelle Medicee, consacrandoli alla casata Medici, e a Cosimo II in particolare, suo allievo negli anni precedenti, diventato nel frattempo Granduca di Toscana.

 

L'uscita del Sidereus nuncius provocò fra gli scienziati e gli aristotelici più o meno ortodossi, un'esplosione, fra livori, dinieghi, invidie, false confutazioni, basse maldicenze (non senza, va detto, qualche lode entusiastica). Il collega, e tutto sommato amico, Cesare Cremonini l'occhio al cannocchiale non lo volle proprio accostare. Sacerdote di quel razionalismo aristotelico, spregiudicato e controcorrente qualche centinaio d'anni prima ma ormai ammuffito, che gli procurò comunque noie con l'Inquisizione senza peraltro impedirgli di denunciare a sua volta il De rerum natura di Bernardino Telesio, sentenziava, fra un ghigno e una reprimenda, che «mirare per quegli occhiali» a lui «imbalordiva la testa». E qui si fermò il suo contributo al dibattito sui nuovi progressi scientifici. Spingendosi poco oltre pur pubblicando un opuscolo, il medico e astrologo boemo Martin Horky negò l'esistenza dei satelliti di Giove, forte dell'assunto che nessuno li aveva mai visti, e attribuì la falsa scoperta di Galileo a effetti caleidoscopici delle lenti e, più che altro, alla sua sete di denaro. Passato il limite della decenza, fu sfrattato e congedato su due piedi da chi prima lo aveva sostenuto nella polemica, e consigliato di lasciare l'Italia da Keplero, cui si era rivolto in cerca di protezione. Altri suggerì che i pianeti, ognuno dei quali legato a un particolare colore, erano già sette, numero sulla cui sacralità nessuno avrebbe potuto dubitare: sette come i metalli esistenti in natura, sette come le parti vitali dell'organismo umano. Come potevano allora questi quattro corpi estranei venire a scompaginare la perfezione?

 

Argomenti inoppugnabili a parte, poco ebbero a fare gli oppositori di Galileo di fronte all'evidenza, specie quando Keplero, utilizzando un cannocchiale fornitogli da Galileo stesso, confermò l'avvistamento dei pianetini gioviali. Le Stelle Medicee sortirono il loro effetto e il Granduca di Toscana lo chiamò a Firenze, come Primario matematico dello Studio di Pisa e della persona stessa del Granduca. Galileo chiese espressamente che gli fosse conferito anche il titolo di Filosofo «professando... di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura». Lo stipendio era ottimo, il prestigio enorme, l'insegnamento non obbligatorio. A nulla valsero le proteste e i malumori degli amici padovani.

****************************

Scheda a cura di Sara Bonechi

Data aggiornamento 16/gen/2008