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Speranze (1624-1631)

ritratto di galileo

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  • Ritratto di Galileo Galilei. Olio su tela attribuito a Charles Mellin, 1639.
  • Veduta della villa "Il Gioiello" ad Arcetri, Firenze.
  • Ritratto di Urbano VIII. Olio su tela di Pietro da Cortona, 1627 ca. (Pinacoteca capitolina, Roma).
  • Il corpo di Roberto Bellarmino (Chiesa di Sant'Ignazio di Loyola in Campo Marzio, Roma).
  • Veduta della Casa di Galileo in Costa San Giorgio a Firenze.

Chi avesse pensato che proibizioni, ingiurie, provocazioni, o anche minacce, avrebbero distolto Galileo dal suo sistema del mondo, si sarebbe sbagliato di grosso. La convinzione di «raggirare nella mente cose di qualche momento per la repubblica letteraria» era pari alla sua innata cocciutaggine. L'espressione del pensiero, poi, la si può inibire, l'atto del pensare, a meno di soluzioni drastiche, fortunatamente no. E Galileo non aveva mai perso le speranze di una riabilitazione del copernicanesimo: senza poterne ammettere la verità in natura, il suo sarebbe rimasto per sempre un mondo sbilenco. L'elezione di papa Urbano VIII gli parve un'occasione da cogliere al volo: pochi anni prima, preso da furore poetico, il nuovo papa aveva composto dei versi intrisi di incredula ammirazione, significativamente intitolati Adulatio perniciosa, in lode della «lente» del «dotto Galileo» e dell'«arte» che ne aveva permesso un così proficuo uso. Entusiasti, poi, erano gli amici romani, in particolare della cerchia lincea, alcuni dei quali erano stati chiamati a far parte dell'entourage papale e avevano informato Galileo di come il pontefice avesse assai gradito la dedica del suo Saggiatore: vi si era così appassionato, da farselo addirittura «legger a mensa». Ma una spinta ulteriore gli dovette venire anche da certi incontri che aveva probabilmente avuto già nel 1616 col futuro papa in persona. Colomba fra i falchi del Sant'Uffizio, l'allora cardinale Barberini doveva essersi adoperato perché la teoria della mobilità della Terra non fosse bollata di eresia e Galileo doveva aver apprezzato la sua linea morbida.

 

Gli anni dal 1624 al 1631 furono perciò densi di attività. Galileo mise in cantiere una nuova opera, la più importante della sua vita, la cui stesura fu ultimata nonostante il tempo sottratto da una frenetica attività diplomatica e da una capillare tessitura di relazioni. Furono necessari ben due viaggi a Roma, nel 1624 e nel 1630, oltre a rapporti epistolari continui, in particolare con gli accademici lincei che, in loco, tenevano le fila dell'operazione, intenzionati nuovamente ad accollarsi gli oneri della stampa. Sacrificio non irrilevante per lui, considerando l'età ormai avanzata (sessant'anni a quell'epoca erano molti), che certo non aiutava una salute già costituzionalmente fragile, dando adito a qualche sfogo: «il corteggiare è mestiero da giovani - scriveva da Roma nel 1624 - li quali, per la robustezza del corpo e l'allettamento delle speranze, son potenti a tollerar simili fatiche». E pensare che la figlia Virginia era preoccupata perfino per le troppo lunghe peregrinazioni di Galileo attraverso i dintorni di Firenze. Andarla a trovare non era uno scherzo: dalla villa di Bellosguardo al convento di Arcetri la strada era lunga anche a cavallo della mula. Il figlio, che nel frattempo si era sposato con Sestilia Bocchineri, di famiglia benestante, aveva acquistato grazie alla generosa dote una casa sulla Costa San Giorgio, accogliente, «con orto, conserva di acqua et corte», più vicina alla residenza delle sorelle. Ma Galileo non vi abitava, continuando a preferire l'isolamento della propria collina. Virginia non si rassegnò e si adoperò in ricerche continue, finché, nel giro di qualche anno, riuscì a convincere il padre ad avvicinarsi: «ora di fresco sento esserci la villa del signor Esaù Martellini, la quale è al piano dei Giullari e confina con noi». Galileo l'affitterà nel 1631 e la villa, detta ‘Il Gioiello', a due passi dal convento di Arcetri, diverrà il teatro delle disillusioni e delle miserie che avveleneranno gli ultimi anni della sua vita.

 

A Roma nel 1624 Galileo aveva fatto la conoscenza di varie personalità influenti, ne aveva raccolto incoraggiamenti e rassicurazioni, era stato beneficiato dal papa di una lunga lista di regali, un quadro, una medaglia d'oro, una d'argento, una pensione per il figlio, un breve laudativo da consegnare al Granduca, «una buona quantità di Agnus Dei». Nel 1630 portò a casa anche l'imprimatur per la sua nuova opera, ormai terminata, che si sarebbe dovuta stampare a Roma. Non ottenne mai ciò che più gli premeva: il pubblico riscatto di Copernico.

 

Ma le posizioni di papa Urbano VIII erano davvero così divergenti dal quelle ufficiali che la Chiesa aveva tenuto fino a quel momento? Non si direbbe proprio. Anzi. Secondo le testimonianze del suo teologo personale, il Barberini, in linea con quanto aveva sostenuto l'ormai defunto cardinale Bellarmino, circostanziava ulteriormente la subordinazione della scienza alla Scrittura, andando a scomodare anche l'onnipotenza divina. Per la ragione umana, sostanzialmente debole, il moto della Terra salvava le apparenze dei fenomeni. Ma Dio, in quanto onnipotente, avrebbe avuto infiniti altri modi, incomprensibili alla debole ragione umana, per ottenere uguali fenomeni. Era in grado la debole ragione umana di dimostrare l'incongruenza di qualsiasi altra struttura dell'universo, stabilita da Dio onnipotente, che desse luogo agli stessi esatti fenomeni? Ovviamente no. Quindi, il tenere per vera una sola di queste possibili strutture dell'universo, quella più plausibile per la debole ragione umana, era conoscenza puramente illusoria, e tanto valeva rinunciare e attenersi ai testi sacri, magari meno convincenti a un occhio matematico (debole anch'esso), ma pur sempre parola di Dio onnipotente e perciò insindacabili. Con queste premesse, tutto il progresso scientifico diventava pura illusione e nulla poteva darsi come conoscenza acquisita. Non potendone confutare ogni singola conquista, non restava che negare la possibilità stessa della scienza e assumere la rivelazione come unica via umana alla conoscenza. Pareva quasi che il Barberini non avesse mai avuto particolare interesse a far condannare come eresia la mobilità della Terra, accontentandosi, come fu riferito a Galileo, di additarla per «temeraria», convinto in fondo di non dover «temere che alcuno fosse mai per dimostrarla necessariamente vera».

 

Superfluo dire che Galileo era di tutt'altro avviso. Per lui la scienza aveva il proprio campo d'azione, peculiare e autonomo. Non le competeva capire «quello che Iddio poteva fare», ma «quello che Egli ha fatto», come scriveva chiosando un matematico francese che sosteneva tesi analoghe a quelle del Barberini. Certo, per mostrare la sua onnipotenza, Dio avrebbe potuto far alzare gli uccelli in volo «con le ossa d'oro massiccio», «con le vene piene d'argento vivo», «con la carne grave più del piombo», «con le ale piccolissime e gravi», avrebbe potuto fare i pesci pesantissimi, ma non l'ha fatto. Ha invece «voluto far quelli d'ossa, di carne e di penne assai leggiere», perché potessero volare «e questi egualmente gravi come l'acqua», perché potessero nuotare. Dio, difatti, «gusta della semplicità e facilità», ovverosia si compiace delle leggi chiare e precise che governano la natura. Del resto, non era la natura il linguaggio divino, e per giunta linguaggio matematico?

 

Il punto di vista teologico e quello scientifico viaggiavano ormai su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai più, e questo contrasto stridente non prometteva nulla di buono. Ad addensare altre nubi all'orizzonte contribuì anche la sorte. Nell'agosto del 1630 morì incautamente Federico Cesi. Galileo perdeva così non solo un valido appoggio nello svolgimento pratico del proprio lavoro, ma soprattutto il suo principale sostegno negli ambienti romani, all'interno dei quali il Cesi aveva assunto la funzione di cuscinetto, grazie a una rete di mediazioni che avevano sensibilmente ridotto i rischi di un temperamento appuntito come quello di Galileo. Poi venne la peste. L'epidemia che aveva colpito l'Italia sconsigliava il trasporto di cose, se non previe pericolose disinfezioni. Non era affidabile mandare a giro il manoscritto dell'opera appena finita, in queste condizioni di generale precarietà. E, ormai, che cosa poteva offrirgli in più Roma rispetto a Firenze? Consigliato da tutti, Galileo si risolse a stampare il libro a casa propria. Nell'ansia di pubblicarlo e nel precipitoso susseguirsi dei fatti, non riconobbe i segni di un vento contrario.

 

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Scheda a cura di Sara Bonechi

Data aggiornamento 16/gen/2008