Un raggio luminoso che attraversa la superficie di separazione tra due mezzi di diversa densità viene rifratto, ossia deviato. Tuttavia la luce è composta da vari colori e l’angolo col quale questi sono rifratti varia per ciascuno di essi. Per questo motivo, in una lente positiva i raggi luminosi non convergono tutti esattamente nello stesso punto, ma le radiazioni di lunghezza d’onda minore focalizzano più vicini alla lente e quelli di lunghezza d’onda maggiore più lontano. Questo fenomeno è noto come aberrazione cromatica. L’assenza di un fuoco unico provoca un fenomeno di iridescenza, che deteriora sensibilmente la qualità delle immagini. I primi costruttori (fig.1, fig.2, fig.3) si erano già accorti empiricamente che l’aberrazione cromatica dei cannocchiali diminuisce sensibilmente aumentando il rapporto tra lunghezza focale e diametro dell’obiettivo. I cannocchiali seicenteschi, infatti, non solo hanno focali relativamente lunghe, ma di norma sono dotati anche di un diaframma che ne riduce l’apertura (fig.4). Tuttavia la distanza focale necessaria a limitare gli effetti dell’aberrazione cromatica non è proporzionale al diametro dell’obiettivo, ma al suo quadrato. Se, ad esempio, un obiettivo di 2 cm di apertura non manifesta fenomeni apprezzabili di aberrazione cromatica per focali di almeno 75 cm, un obiettivo di diametro doppio, ossia 4 cm, deve avere una focale 4 volte maggiore, ossia circa 3 m. Questa circostanza condizionò profondamente la successiva evoluzione del cannocchiale (fig.5). Da un lato, infatti, il progressivo aumentare del diametro degli obiettivi portò alla costruzione di cannocchiali sempre più lunghi (fig.6), fino a raggiungere i limiti pratici di realizzazione (fig.7); dall’altro, spinse alla ricerca di soluzioni basate sull’utilizzo di specchi che, lavorando per riflessione, non sono affetti da aberrazione cromatica.
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