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Emilio Gino Segrè - 1959Tivoli 1905
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Lafayette 1989
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testo di catalogo
di Giovanni Battimelli
Il Premio Nobel per la Fisica per il 1959 fu assegnato a Emilio Segrè e Owen Chamberlain «per la loro scoperta dell’antiprotone», avvenuta nel settembre del 1955. Concordando il soggetto delle conferenze che avrebbero tenuto a Stoccolma, i due vincitori del Premio decisero che Segrè avrebbe parlato in generale delle proprietà dell’antimateria, mentre a Chamberlain sarebbe toccato il compito di illustrare più specificamente il lavoro che aveva portato alla scoperta. Come consuetudine in queste occasioni, al termine della conferenza Chamberlain menzionò coloro che in qualche misura erano stati coinvolti nell’esperimento, e che avevano quindi contribuito al suo successo, riconoscendo nelle ultime parole del suo discorso che «è il lavoro di molte persone ciò che viene onorato oggi». La vicenda della scoperta dell’antiprotone è infatti una storia breve ma popolata da molti attori.
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Che dovesse esistere una particella di massa uguale al protone ma di carica negativa, e che questa particella fosse effettivamente un antiprotone (capace cioè di annichilarsi nell’incontro con un protone, in modo analogo a quanto era noto accadere tra un elettrone e un positrone) era una congettura suggerita dalla possibilità di estendere anche a particelle pesanti la teoria di Dirac, che aveva previsto appunto l’esistenza di un elettrone positivo, osservato da Anderson e confermato da Blackett ed Occhialini già nel 1932. I dubbi di natura teorica relativi alla validità della teoria di Dirac per particelle diverse dall’elettrone non erano del tutto fugati, ma verso la metà degli anni Cinquanta era comunque diffusa l’aspettativa che l’antiprotone esistesse realmente, ed erano in atto tentativi per identificarlo.
C’erano due maniere differenti con cui si sarebbe potuta produrre l’evidenza convincente dell’esistenza dell’antiprotone. La prima consisteva nel produrre una documentazione visibile della sua annichilazione nelle tracce lasciate in strumenti esposti ai raggi cosmici. I raggi cosmici, anche di alta energia, sono forniti gratuitamente da madre natura, e la strumentazione richiesta per visualizzarne le proprietà è relativamente economica, caratteristica che permetteva la ricerca anche a gruppi di fisici non in grado di avere accesso a grandi macchine acceleratrici, come era il caso dei fisici europei all’epoca. Tuttavia, la probabilità di catturare accidentalmente in questo modo l’antiprotone era estremamente bassa, e i rari eventi “strani” osservati nei raggi cosmici, che si prestavano ad essere letti come tracce in tal senso, erano di dubbia interpretazione e ben lontani dal fornire evidenza conclusiva.
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Un’altra possibilità consisteva nel produrre antiprotoni in copiosa quantità, e quindi rivelarne l’esistenza, creando artificialmente coppie protone-antiprotone negli urti tra un bersaglio fisso e il fascio di protoni prodotto da una macchina acceleratrice. C’era un solo posto al mondo dove una cosa del genere era fattibile alla metà degli anni Cinquanta: il Radiation Laboratory di Berkeley, in California, dove era appena entrato in funzione il Bevatron, il più potente acceleratore per protoni, l’unico in grado di produrre un fascio di particelle con un’energia superiore a quella necessaria per la produzione di una coppia protone-antiprotone, la cosiddetta “energia di soglia”.
Emilio Segrè aveva ormai, nel 1955, un lungo, travagliato e consolidato rapporto con Berkeley e con il direttore del Radiation Laboratory, il fisico Ernest Lawrence, inventore del ciclotrone, creatore del laboratorio e personaggio chiave della politica scientifica statunitense. Segrè si trovava a Berkeley nel 1938 quando la sua posizione di professore universitario a Palermo fu cancellata dalla promulgazione della legislazione razziale in Italia; il suo soggiorno di studio si trasformò in un’emigrazione forzata (circostanza di cui approfittò Lawrence per ridurgli lo stipendio) e in una non facile lotta per la sopravvivenza nel clima estremamente competitivo del laboratorio. Dopo una parentesi a Los Alamos negli anni della guerra, in cui lavorò per il progetto Manhattan alla realizzazione della bomba atomica, Segrè ritornò a Berkeley con una rinnovata autorità scientifica, che gli permise di trovare una posizione accademica soddisfacente e di occupare un posto di rilievo tra il personale del laboratorio, negli anni in cui questo si impose come uno dei più prestigiosi centri di ricerca degli Stati Uniti. L’autorità di Lawrence convinse la Atomic Energy Commission a privilegiare Berkeley come sede del più potente acceleratore del paese e, fin dal momento dell’entrata in funzione del Bevatron, Segrè e i suoi collaboratori erano al lavoro sulla macchina per esperienze sulla polarizzazione dei protoni.
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Il progetto di un esperimento per la rivelazione dell’antiprotone prese forma verso la fine del 1954, quando Oreste Piccioni prospettò al gruppo di Berkeley la possibilità di individuare la particella in maniera indiretta, senza visualizzarne la traccia ma ricorrendo ad un sofisticato sistema di lenti magnetiche e di contatori che avrebbero permesso di determinare impulso e velocità delle particelle negative prodotte nelle interazioni del fascio di protoni con il bersaglio, e di risalire quindi al valore della loro massa, identificando così senza ambiguità la presenza di eventuali oggetti di massa protonica e carica negativa. Mentre venivano condotti i preparativi per l’esperienza, giunse a Segrè una proposta di collaborazione dall’Italia. Edoardo Amaldi, il cui gruppo aveva lavorato sui raggi cosmici trovando uno degli eventi non conclusivi interpretabili come traccia di un antiprotone, proponeva al vecchio amico e compagno di via Panisperna di esporre le proprie emulsioni, anziché alla capricciosa e incontrollabile radiazione cosmica, al fascio intenso e controllato del Bevatron, per cercare tracce visuali dirette dell’annichilazione degli antiprotoni che la macchina avrebbe dovuto produrre in abbondante numero. Accettata la proposta, Segrè e il suo gruppo (di cui facevano parte, oltre a Chamberlain, Clyde Wiegand e Tom Ypsilantis) si trovarono a gestire la conduzione di due esperimenti, di cui uno in collaborazione con Roma, volti entrambi all’identificazione dell’antiprotone, con strategie complementari; in un caso ci si basava su un complesso meccanismo di focalizzazione magnetica del fascio (una tecnica suggerita da Piccioni) e su una raffinata strumentazione elettronica per individuare particelle della giusta carica e massa, nell’altro ci si affidava alla probabilità non trascurabile di rintracciare nelle emulsioni fotografiche la traccia di un fenomeno di annichilazione che avrebbe permesso senza ambiguità l’identificazione delle particelle interagenti come autentici antiprotoni.
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Quello di Segrè non era l’unico gruppo che aveva richiesto l’accesso al Bevatron per la ricerca di antiprotoni; tra gli altri, un esperimento simile, che però non utilizzava il cruciale sistema di focalizzazione ideato da Piccioni, era stato progettato da Edward Lofgren, che era il responsabile della costruzione e del funzionamento della macchina. Segrè e Chamberlain manovrarono molto abilmente nella diplomazia interna del laboratorio per ottenere una porzione sempre crescente di tempo-macchina per il loro esperimento. Nell’agosto le emulsioni furono irradiate e inviate a Roma per il lungo e tedioso lavoro di sviluppo e analisi al microscopio, mentre venivano perfezionati i componenti elettronici dell’esperimento con i contatori, che cominciò a dare in settembre i primi risultati positivi. Il grado di sofisticazione dell’apparato di rivelazione, per la cui messa a punto fu cruciale il ruolo svolto da Clyde Wiegand, si può apprezzare dal fatto che si trattava di isolare gli eventi giusti in un sistema che produceva circa un antiprotone ogni 40.000 eventi. Alla fine di settembre, era stato registrato un numero di antiprotoni sufficiente a rompere gli indugi e ad inviare alla “Physical Review” la nota con l’annuncio della scoperta. In novembre, i fisici romani rintracciarono nelle emulsioni una “stella” che forniva la prova diretta dell’annichilazione; altre furono trovate nei mesi seguenti, suggellando definitivamente l’esito della caccia all’antiprotone.
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Come spesso accade nella ricerca in fisica delle alte energie a causa delle caratteristiche proprie della “big science” che questo settore ha assunto, l’attribuzione di priorità legata alla consegna di un Premio Nobel inevitabilmente focalizza su un individuo e un evento puntuale quello che in effetti è il risultato di un processo di lungo periodo, in cui è stato all’opera «il lavoro di molte persone». Per Segrè, l’assegnazione del Nobel ebbe certamente una funzione di compensazione per il mancato riconoscimento di un lavoro precedentemente svolto, sempre a Berkeley, nel campo di ricerca che egli considerava suo per eccellenza, quello della radiochimica. Dal suo arrivo nel 1938 e per molti anni successivi, Segrè aveva lavorato in stretta collaborazione con Glenn Seaborg alla produzione di isotopi artificiali del tecnezio, e quindi sulle proprietà del plutonio e dei transuranici, mettendo all’opera una competenza consolidata già fin dal 1937, quando ancora a Palermo aveva individuato il nuovo elemento 43 in campioni di materiale radioattivo irradiato dal ciclotrone di Berkeley che gli erano stati inviati da Lawrence. Quando il Premio Nobel per la Chimica per il 1951 fu assegnato al solo Seaborg, Segrè si ritenne defraudato di un credito che riteneva di avere ampiamente meritato. Non c’è dubbio che ebbe un peso determinante, allora, nel meccanismo delle nominations, il potente gruppo di pressione costituito dal circolo intorno a Lawrence, e la forte attenzione prestata alle gerarchie interne del laboratorio, che finirono col privilegiare l’ambizioso Seaborg. Berkeley contraeva in questo modo una sorta di debito verso Segrè. La prossima apertura degli archivi relativi alla designazione dei Premi Nobel del 1959 permetterà di verificare se e in che misura la stessa influenza sia stata decisiva nel far pendere la decisione del comitato verso Segrè, ripagando così quel debito e spingendo verso un riconoscimento che premia il prestigio di un grande e potente centro di ricerca più ancora più che i meriti degli individui che ne hanno beneficiato.
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