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Grazia Deledda - 1926Nuoro 1871
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Roma 1936
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testo di catalogo
di Franca Angelini
Oltre le vicende della vita, questa scrittrice sembra indicare la forza assoluta, il valore indiscutibile della scrittura come strumento di creazione di mondi immaginari modellati su un mondo insieme reale e mitico. Dal suo successo di pubblico, il relativo scandalo dei contemporanei per la donna apparentemente incolta, o autodidatta, trasmigrata dalla Sardegna, cresciuta in appartata posizione letteraria, feconda di scritture varie con esiti nel romanzo, nel teatro, nel cinema, premiata dal Nobel nel 1927 dalla «nordica giuria» – come scrive Emilio Cecchi – forse sottolineando così il sospetto, nel prestigioso riconoscimento, di un benevolo e paternalistico sguardo del nord verso il sud.
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Lo scandalo del successo è presto testimoniato da Pirandello nel romanzo Suo marito, del 1911 (poi intitolato Giustino Roncella nato Boggiolo), in cui la scrittrice Roncella – pallida eco della Deledda – paga lo scotto della fama con il fallimento e l’infelicità nella sua vita di donna. Un romanzo dunque a chiave, modellato in parte sul profilo della scrittrice sarda, ma soprattutto di suo marito, personaggio tragicomico poiché si identifica totalmente con l’opera della moglie, che gestisce come un qualsiasi prodotto commerciale. Il romanzo pirandelliano mette in scena in modo umoristico la società letteraria romana e le sue reazioni al talento teatrale di una giovane scrittrice qui proveniente da Taranto; ma soprattutto ridicolizza e passa al vetriolo l’attività promozionale del marito, Giustino Roncella, suo improvvisato segretario ridicolmente identificato con la creatività della moglie, con tutte le variazioni sul tema della creatività, per la donna ambiguamente declinabile tra arte e vita, al marito decisamente negata. Il 18 dicembre 1908 Pirandello scriveva a Ugo Ojetti: «Manderò pure al Treves, spero in aprile, il romanzo Suo marito. Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Che capolavoro, Ugo mio! Dico, il marito di Grazia Deledda, intendiamoci…» (Deledda 1980, p. 28).
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Ma Pirandello rende onore alla scrittrice in primo luogo attribuendole la trama di un dramma di grande successo, L’isola nuova, da Pirandello definita «tragedia selvaggia», in cui si ambienta il mito di Medea in un’isola che accoglie prostitute e reietti da redimere. «Aveva immaginato – si legge in Suo marito – un’isoletta del Jonio, feracissima, già luogo di pena, abbandonata dopo un disastro tellurico…». Qui si forma una nuova società, che risacralizza maternità e fedeltà e che spinge la donna a soffocare il figlio, nuova Medea, nel momento in cui tali principi vengono traditi. Un modo dunque di ritrovare, ambientandolo nel mondo moderno, il mito greco; ma è interessante sottolineare che Pirandello utilizzerà questa stessa trama, con poche varianti, nel suo futuro dramma La nuova colonia.
Dunque non siamo lontani da una identificazione creativa, questa volta tra il personaggio Roncella e l’autore Pirandello, e da un giudizio totalmente positivo sulla fantasia poetica della scrittrice sarda, se a lei pensava nei panni della scrittrice. Dove è centrale, come vede Pirandello, la presenza di temi e di coloriture mitiche, il che la pone, nello schema della storiografia letteraria, tra il Verga del ciclo dei vinti e il d‘Annunzio della Figlia di Iorio; diversa però da entrambi, poiché in lei sembra mancare lo sperimentalismo linguistico e l’idea stessa di una ricerca sperimentale mentre è dominante l’urgenza del racconto, il dettaglio della descrizione, la presenza luminosa dei paesaggi, l’invenzione di personaggi sottomessi a un destino implacabile, sempre attratti da una colpa e pronti a espiare; nella forma asciutta di chi guarda un’evidenza, di chi trascrive in modo diretto un parlare e un dialogare assai prossimo al parlato teatrale. Come scrive l’autrice nel suo primo romanzo borghese Nostalgie, sottolineando la sua «narrazione semplice … tanto semplice che la critica la troverà una prova mancata della mia capacità narrativa, spiegatasi finora solo nel raccontare le miserie di una società primitiva…» (Deledda 1905, p. VII).
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E infatti Ugo Ojetti, nel “Corriere della Sera” del 15 aprile 1905, puntualmente stronca il romanzo, in termini che sembrano voler bloccare la scrittrice in formule invariabili, tutte costruite intorno alle categorie estetico-sociologiche del “selvaggio” e del “primitivo”: «Grazia Deledda, che s’è acquistata fama in tutt’Europa coi romanzi e le novelle della Sardegna, è escita dall’isola. Vi soffocava … Voleva essere celebrata per la sua arte soltanto, non anche per la curiosità che quelle descrizioni esotiche e un po’ selvagge destavano negli “uomini bianchi” del continente … questo è il romanzo d’una provinciale e non solo ne è provinciale l’eroina ma anche la scrittrice. Ma il racconto e i personaggi di Nostalgie sono tanto mediocri e monotoni che ogni contadino sardo nell’Elias Portolu o in Cenere vale più di loro e con un sol gesto avvince più tenacemente la nostra attenzione. Siamo tra gl’impiegati dello Stato, ottima gente … meno goffa di quel che pensi in questo libro la signora Deledda. La quale, per esser moglie di un impiegato del Tesoro … ha voluto … continuare a descrivere quel che ha, per consuetudine quotidiana, veduto prima, gli uomini di Sardegna col cappuccio e le uose, poi quelli dei ministeri romani con le mezze maniche…».
L’orizzonte di attesa del pubblico contemporaneo, la celebrazione dell’isola natia tuttora sconosciuta alla maggioranza degli italiani e apparentemente lontana, è quanto sembra decretare successi o insuccessi dei romanzi della scrittrice, a partire da Sangue sardo del 1889, Il vecchio della montagna (1900), Elias Portolu (1903) e dal suo primo teatro, Odio vince tra il 1904 e il 1905 e, in collaborazione con Camillo Antona Traversa, L’edera, del 1906, molto felicemente rappresentato all’Argentina nel 1909. Secondo la recensione di Domenico Oliva: «All’esito felice della rappresentazione … giovò la Sardegna … ch’ella ci rivelò prima fra i moderni… che ci appare tuttora misteriosa … Vero è che qui non c’è abuso di colore locale, e anche questo è bene…» (Oliva 1911, p. 39).
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Anche per questa richiesta del pubblico si notano nella Deledda figure e temi ricorrenti legati all’eccezionale presenza di una Sardegna primitiva e selvaggia, attaccata al regno in modo fittizio, capace di fornire un esempio di sopravvivenza del “primitivo” e del “selvaggio”: un’isola che accende il sentire, accentua il valore massimo della creazione e della maternità, di un eros come emozione diffusa e come peccato, della famiglia soprattutto costruita intorno alle figure femminili (in Canne al vento, oltre i riti isolani variamente declinati, leggiamo di un amoroso rapporto tra zie e nipote che sembra annunciare Le sorelle Materassi). Tali temi accompagnano e sembrano illustrare i nascenti studi etnografici, oltre che folklorici, secondo l’esempio del Pitré della Biblioteca delle tradizioni popolari e delle Curiosità popolari tradizionali, come in generale accompagnano l’interesse per i popoli marginali e per il sud dell’Italia unita, la valutazione positiva dell’intatto, del non corrotto dal progresso, del “primitivo”, categoria ampiamente usata dai contemporanei e successivi studi di Lucien Lévy-Bruhl.
È perciò notevole una singolare presenza contemporanea della Deledda con L’ombra del passato nella “Nuova Antologia” del 1907 e di Giuseppe Sergi con un saggio Intorno alla psicologia della popolazione sarda, in cui la Sardegna è un’isola «misteriosa», dove la natura è «primitiva» e «ove l’uomo è animale raro che sembra nascondersi e vuol vivere solitario e selvaggio»; non tanto dunque “primitivo” quanto “naturale”. Una nota che sembra alludere alla Deledda, non solo nella radice e nei tratti di molti suoi personaggi ma nella sua conoscenza dei canti e riti popolari dell’isola, e nell’incanto indiscutibile dei suoi paesaggi, dove l’immagine e il colore sembrano offrirsi alla vista del lettore come per una magica prima volta.
Sono alcuni degli elementi di una scrittura che affascinò la più grande attrice del secolo, Eleonora Duse, e che la spinsero alla sua unica esperienza cinematografica, nel 1916, dopo la lettura del romanzo della Deledda Cenere. Come l’attrice annuncia alla figlia in una lettera datata 2 maggio 1916, è questo «un bel libro ambientato nell’isola di Sardegna … Il libro si basa sulla necessità (non importa quale) di una separazione tra madre e figlio: la madre – sola e povera – si abbrutisce nella morte del cuore senza amore, ma il figlio – per volontà della madre – mandato, subisce un’evoluzione – pratica e poetica, diventa un uomo – un vero uomo … capace di comprendere la pietà. Qualcosa tra il Rolla di De Musset, il René di Chateaubriand e, va da sé, qualcosa della sete (sete d’amore e di pene) di Nietzsche» (Weaver 1985, pp. 317-318). Su una trama melodrammatica che ruota intorno al rapporto madre–figlio (una ragazza madre costretta a abbandonare il figlio, che tardi lo ritrova ma non viene accettata dalla futura nuora e di questo muore «perché si riconosce – come scrive la Duse – indegna di condividere l’amore del figlio e per l’orgoglio della povertà», l’attrice costruisce un film di forte tensione drammatica. Sceneggiato dal sardo Paolo Orano, doveva concentrarsi sull’illustrazione dei colori e costumi dell’isola; finisce invece per riflettere la forte impronta dell’attrice, identificata con la povera madre e interessata a sperimentare l’arte muta del cinema dopo la parola piena dei drammi teatrali. Con la regia di Febo Mari, anche nella parte del figlio, mostra la sua recitazione essenziale e asciutta, in piena sintonia con la scrittura del romanzo, che semplifica il melodramma controllando gli effetti e puntando invece sull’assolutezza del sentimento materno.
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Ma Cenere interessa anche per un altro dato: la Duse volle, per la messa in scena del dramma, un esplicito riferimento alla pittura di Giotto, cioè di quel grande pittore che in quegli anni si definiva “primitivo". Il che dimostra che certo l’attrice, e molto probabilmente la scrittrice, avevano del “primitivo” una precisa percezione culturale, del tutto esente da coloriture folkloriche e invece consapevole di riferirsi a un altro stile e a un’altra cultura rispetto a quella attuale e dominante.
In generale, la Deledda ha sofferto in Italia di un’immagine fissa, che stenta ad uscire dal pregiudizio e registra, in caso contrario, uno scandalo, protratto nel tempo; se Emilio Cecchi così ragiona del supposto “decadentismo” della scrittrice nel primo volume delle opere nell’edizione Mondadori: «Ora, nella Deledda, non è idea, e tanto meno intenzione, d’uno sfruttamento a scopi estetici del proprio inconscio “decadentismo”. Non è ombra di vizioso sdoppiamento e narcisismo. Lo conferma, insieme alla sua vita di massaia, la rudimentale preparazione, la casalinga sobrietà delle sue preferenze, l’assoluta estraneità alle mode e conventicole. Non si conoscono fatiche di mero tecnicismo letterario cui ella abbia atteso; all’infuori di qualche trascrizione di canti popolari sardi; e, negli ultimi tempi, un’antologia delle “più belle pagine” del Pellico e una traduzione di Eugénie Grandet» (Cecchi 1941, pp. 3-4).
Dunque, ancora una volta la scrittrice viene posta tra il “tecnicismo letterario” di Verga e il “narcisismo” di d’Annunzio, ma al di fuori di tale linea, nella non consapevolezza di un atteggiamento “decadentistico”; come se la consapevolezza dei doppi che animano la vita – primi tra tutti eros e morte oppure eros e peccato – oppure la consapevolezza della presenza dominante del fato nelle storie umane non fossero pensabili in una scrittrice di rudimentale preparazione e di casalinga sobrietà. Come se tale sobrietà non fosse la conquista di uno stile e se tale conquista non contenesse intera e la consapevolezza e la cultura della scrittrice.
Come se dunque il Nobel non avesse riconosciuto questi come valori originali e unicamente appartenenti alla Deledda, capaci di arricchire il patrimonio letterario mondiale del primo Novecento.
Letteratura citata
Cecchi 1941: E. Cecchi, Introduzione in G. Deledda, Romanzi e novelle, vol. I, Milano-Verona 1941.
Deledda 1905: G. Deledda, Nostalgie, Roma 1905.
Deledda 1980: G. Deledda, Carteggi inediti, a cura di S. Zappulla Muscarà, Roma 1980.
Oliva 1911: D. Oliva, Il teatro in Italia nel 1909, Milano 1911.
Weaver 1985: W. Weaver, Eleonora Duse, Milano 1985.
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