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Giosuè Carducci - 1906Valdicastello 1835
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Bologna 1907
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testo di catalogo
di Nino Borsellino
Il 1906 fu l’anno dell’Italia. Ne erano passati cinque dall’inaugurazione del grande Premio che salutava in piena Belle époque l’ingresso del nuovo secolo convertendo i proventi di una scoperta quanto meno allarmante, per sua natura esplosiva, come la dinamite, a beneficio della pace tra i popoli e della cultura di tutto il mondo. Alla cultura italiana fu dato un doppio riconoscimento: per la medicina un ex aequo all’anatomista Camillo Golgi, per la letteratura il Premio indivisibile al poeta di maggior fama italiana, a Giosuè Carducci. La sua candidatura all’Accademia di Svezia era già stata posta per tre volte, nel 1902, nel ’03 e nel ’05, in concorrenza con quella di Antonio Fogazzaro, indicata a partire dall’anno inaugurale, il 1901, e ripresentata, senza fortuna ma con notevoli apprezzamenti per l’opera del pensatore oltre che per il romanziere, fino al 1911, anno della morte dello scrittore vicentino. Il duello vinto dal «poeta vate della nuova Italia» (Croce 1948, pp. 49-50) ebbe effetti postumi negativi non solo per l’autore di Malombra, ma anche sulle successive candidature italiane. E infatti ci fu poi un’attesa di vent’anni per un’altra affermazione che toccò nel 1927 a Grazia Deledda, anche lei entrata più volte in gara. Nel lungo intervallo erano emersi tanti nomi di letterati addetti alla narrativa e alla poesia ma anche alla storiografia, alla filologia, all’erudizione, molti perfino dimenticati (una Dora Melegari, un Giovanni Schembari!). Mai erano affiorati i nomi che restano: Verga, Pascoli, D’Annunzio, Gozzano. I meccanismi di promozione al Nobel hanno sempre previsto la possibilità di un’autopromozione per delega e con l’eventualità di rispettose prese in considerazione accademiche che potevano soddisfare la vanità dei concorrenti. Del resto, i valori della letteratura non sono misurabili col metro dei risultati scientifici e si acquisiscono meglio che nei tempi stretti della contemporaneità, sulla lunga durata che fa giustizia di incomprensioni e anche avversioni.
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Il Premio a Carducci, comunque, si può considerare, dalla parte italiana soprattutto, un evento storico. Celebrava il passato e il presente di una letteratura fattasi in senso proprio, civile e politico, nazionale e legittimava una rivendicazione di modernità fondata su un ideale di neo-classicità pienamente visibile nelle forme e nei contenuti dell’opera carducciana. La congiunzione dei due termini, antico e moderno, sembrerebbe produrre soltanto attrito. I romantici, cioè i moderni, ne avevano sentito lo stridore e perciò avevano ripudiato la tradizione non senza, nei più sensibili, sofferenza e nostalgia. Invece l’età nuova della Rivoluzione Francese si era manifestata con mode antiche che esaltavano tanto l’eroismo libertario quanto la regalità napoleonica. E, molto prima, la rinascita intellettuale e artistica dell’Italia e dell’Europa nell’età dell’umanesimo si era modellata sull’esemplarità culturale del mondo greco e romano.
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Carducci è un erede di quella classicità moderna. Si era autonominato da giovane «scudiero dei classici» e poteva vantare una precoce competenza di grecista e latinista e già un apprezzabile esercizio di verseggiatore. Ma entro questi stretti limiti sarebbe rimasto non più che un epigono di buon mestiere, un professore con buona vena poetica (e la sua fu una fertile stagione di professori poeti). Invece il suo antiromanticismo, la sua avversione a un languorismo sentimentale molto pervasivo tra un pubblico di lettori e lettrici di gusto opposto, tardo romantico, che si andava incrementando prima e dopo l’Unità, era la premessa etica, e certamente caratteriale, di una poetica rigeneratrice. Ancora nel 1869 darà sfogo in un componimento intitolato appunto Classicismo e romanticismo a quel disdegno apparentemente soltanto umorale. Loda il sole «benigno», astro soccorrevole della terra e dell’umana laboriosità, biasima la luna lusingatrice, cara «a’ poeti perdigiorni / e a’ disutili amori». Lui è poeta solare avverso al pallido pianeta: «Odio la faccia tua stupida e tonda, / l’inamidata cotta, / monacella lasciva ed infeconda, / celeste päolotta». Quarant’anni più tardi i futuristi programmeranno l’uccisione del chiaro di luna, ma la loro solarità elettrica sarà il simbolo di un’energia artificiale tanto diversa da quella naturale cantata da Carducci.
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Energia è una parola messa in evidenza nella breve motivazione con la quale gli venne conferito il Premio: «non soltanto in considerazione del suo profondo sapere e della dimensione critica delle sue ricerche, ma, soprattutto, come tributo all’energia creativa, alla freschezza dello stile e alla forza lirica che caratterizzano i suoi capolavori poetici». La sottolineatura del vigore che impronta tutta l’opera carducciana, e anche della freschezza – da intendere come vivacità naturale – del suo stile lirico sarà stata accolta con malinconia dal vecchio poeta da due anni colpito da paralisi e impedito di recarsi a Stoccolma a ricevere solennemente il premio. «Singolare fortuna la mia – scriveva al segretario dell’Accademia di Svezia il 15 novembre 1906 – che mi dà la gioia di ottenere in questa vita una delle maggiori soddisfazioni a cui un uomo possa aspirare: gioia che mi è offuscata dall’amarezza di non poter venire in codesta gloriosa capitale per ricevere personalmente dalle mani della Augusta Maestà il Re, in un indimenticabile giorno, le insegne del Premio. Le mie malattie – aggiungeva – mi impediscono attualmente ogni movimento fisico, e mi restano soltanto lo spirito e il cuore…» (Carducci 1968, pp. 280-281). Solo, appunto, per ringraziare. Il cuore gli resse ancora poco, fino al 16 febbraio dell’anno dopo quando la morte lo colse a settantun’anni nella città che dal ‘60 era divenuta sua al punto che nel suo ampio discorso di presentazione C.D. af Wirsén, segretario permanente dell’Accademia, mette in evidenza un debito di riconoscenza. «Bononia docet», è ancora all’altezza della sua gloria secolare per merito del poeta. Dal canto suo Carducci, rivolgendole un saluto in un sonetto del ‘78 aveva ricordato una gloria più materiale: «Addio, grassa Bologna». Quel blasone cittadino assecondava le inclinazioni al buon convito, dal quale volentieri anche lui si faceva tentare. «Re del convito» era un titolo che fra gli altri (re dei fenomeni e delle forme, cioè della materia) Carducci aveva attribuito all’anticristo nell’inno che gli dedica con «verso ardito» (A Satana, 1863). Il suo ribellismo anticlericale e antitirannico era ostentato ma non infondato. Le fonti furono indicate da lui stesso in poeti come Hugo, Heine e forse anche Baudelaire, che aveva letto con molti altri del secolo: Wordsworth, Chénier, Barbier, autore di Jambes che influenzarono i suoi battaglieri Giambi ed epodi (1867-79), e più ancora nelle storie di Michelet, di Quinet, nella dottrina di Proudhon. Satana era, però, per lui la maschera demoniaca di Lucifero, portatore di luce, luce di ragione, non il principe delle tenebre.
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Le sue letture furono sterminate e di volta in volta messe a profitto delle sue poesie, che godevano del tributo di entusiasmo di un pubblico crescente, e dei suoi discorsi letterari e civili, questi ultimi soprattutto a loro volta entusiasmanti. Erano perfomances orchestrate su una scala di intonazioni affettive e di registri polemici che certo hanno esercitato un magistero oratorio di indubbia efficacia destinato a durare fino ai limiti della discorsività televisiva che oggi impone messaggi interlocutorii, non orazioni. Esemplare in questo senso la commemorazione Per la morte di Giuseppe Garibaldi («Non applaudite, vi prego … piangiamo i fati della patria»), pronunciata nel 1882, lo stesso anno in cui il giacobino cresciuto selvatico in Maremma e il garibaldino indignato contro il moderatismo postrisorgimentale per l’oltraggio al generale in Aspromonte e Mentana, aveva reso omaggio alla monarchia nella prosa Eterno femminino regale, dedicata alla regina Margherita già celebrata nel 1878 nell’ode Alla regina d’Italia.
La carriera politica di Giosuè Carducci fu consacrata nel 1890 dalla nomina a senatore. Ma non fu la carriera di un voltagabbana. La gloria poetica e intellettuale gli bastava. Se spense gli ardori polemici della gioventù fu perché via via la sua riflessione si era estesa al di là dell’ideologia repubblicana e degli stessi confini della patria. Si specchiava forse nella carriera poetica di Giacomo Leopardi, ricostruita a partire dal radicalismo patriottico delle canzoni civili per arrivare all’universalismo della Ginestra: una carriera che in parte concordava con la sua. Da Juvenilia a Levia gravia, Giambi ed epodi, Rime nuove fino alla sua raccolta più sperimentale, le Odi barbare, nel discorso accademico la più lodata, Talia, la musa della satira aveva lasciato sempre più spazio a Clio, la musa della storia: di una storia personale intessuta di memorie tristi e liete, familiari, d’adolescenza, di amicizie e amori, e della storia dei popoli e degli eroi vincitori e vinti del fervido secolo diciannovesimo.
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La critica ha colto nello svolgimento della sua poesia modulazioni intimistiche impressionistiche parnassiane. Anche il giudizio dell’Accademia svedese dà risalto a testimonianze di un lirismo più accorato, in particolare alle modulazioni malinconiche dell’ode Alla stazione in una mattinata d’autunno generalmente segnalate, e anche indizi di conversione da un eccitato paganesimo verso un cristianesimo pacificatore. La chiusa della canzone La chiesa di Polenta (1897, della sua ultima raccolta, Rime e Ritmi), ne darebbe conferma: «Taccion le fiere e gli uomini e le cose, / roseo ‘l tramonto ne l’azzurro sfuma, / mormoran gli alti vertici ondeggianti / Ave Maria». Del resto non è l’unico documento di un panteismo in cui convergono natura e storia.
Carducci non fu sordo alle sirene letterarie del decadentismo. Mise in gioco talvolta le sue certezze. Ma non fece scambi tra realismo di buona marca ottocentesca e simbolismo fin de siècle. Come capì Croce, il suo critico più solidale, la sua più autentica motivazione estetica era storica, e la storia lo induceva a fare della poesia uno strumento di pensiero e di azione, alternando l’invettiva e il sarcasmo all’oratoria celebrativa. Da qui, oggi, la sua inattualità, la sua perdita d’influenza rispetto ad altri esemplari poetici che hanno costituito la tradizione del Novecento. Ma resta una sua attualità perenne nella storia di una poesia italiana ed europea e in quella degli ultimi poeti vati che vollero essere storia per se stessi e fare per tutti storia. In questo senso il Nobel fu insieme un premio al valore e una giubilazione.
Letteratura citata
Carducci 1968: G. Carducci, Lettere, Edizione Nazionale delle Opere, Bologna 1968.
Croce 1948: B. Croce, Le varie tendenze e le armonie e disarmonie di Giosuè Carducci, in La letteratura della nuova Italia, vol. II, Bari 1948.
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