testo di catalogo
di Piero Boitani
Quando si apre il volume delle Poesie complete di Salvatore Quasimodo si trovano immediatamente, l’una dopo l’altra, due liriche divenute centrali nella letteratura italiana del Novecento, Ed è subito sera e Vento a Tindari (Quasimodo 1996, pp. 9-11). La prima ha anzi il tono del classico, suona quasi come un’epigrafe antica di quelle che Quasimodo tradurrà molto più tardi: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera». Eppure questi versi compaiono già in Acque e terre, una collezione pubblicata nel 1930 e che contiene composizioni vergate fra il 1920 e il 1929. Né si potrà negare la somiglianza di intonazione con quell’altra, assai più icastica, dichiarazione classica della condizione umana che è Soldati di Giuseppe Ungaretti, scritta nel 1918: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie». In altre parole, Quasimodo raggiunge subito, sin dalla sua prima antologia, il livello di quello che diverrà il canone modernistico italiano. Se poi si guarda alla seconda lirica, Vento a Tindari, ecco emergervi con insorpassata chiarezza la voce e i temi della miglior poesia quasimodiana: la parola che vola da un oggetto all’altro senza i nessi tradizionali («Salgo vertici aerei precipizi»), il giro tipico della frase («Tindari, mite ti so / fra larghi colli pensile sull’acque»); il mito della Sicilia dell’infanzia e dell’adolescenza che il poeta porterà sempre con sé, un’isola che, rivestita di luce, è di quelle «dolci del dio» e nutre nel suo grembo serenità e gioia; e di contro la terra del Nord che Quasimodo considera «aspro» esilio e luogo dove gli cresce dentro l’«ansia precoce di morire», dove «ogni amore è schermo alla tristezza», «tacito passo nel buio»: dove egli è «posto / amaro pane a rompere» – insomma i due momenti opposti tra loro di una «aspirazione ad un mondo felice in una memoria di desideri» e di un «sentimento della continua esasperata presenza nella vita della corruzione più dissoluta della morte» (Anceschi 1942, p. 91).
|
Il vento che, «soave amico», dai pini di Tindari desta nel poeta la nostalgia e l’ispirazione, è quello che segna la poetica stessa di Quasimodo: da una parte la «ricerca d’armonia» che la Sicilia del passato rappresenta, dall’altra le «segrete sillabe» che egli nutre nella terra «ove ogni giorno affond[a]». «Vento profondo», quello di Tindari, che ha «cercato» lo scrittore, eleggendolo, rendendolo cantore. E vento coniugato, con richiamo implicito all’Infinito leopardiano, con la «siepe» che esclude lo sguardo da tanta parte dell’ultimo orizzonte e perciò costituisce il punto di partenza dell’esplorazione poetica. In un discorso del 1950 su Una poetica Quasimodo dirà che «la parola isola, o la Sicilia, s’identificano nell’estremo tentativo di accordi col mondo esterno e con la probabile sintassi lirica», e per l’appunto chiamerà la Sicilia la sua «siepe»: «Ma poi: quale poeta non ha posto la sua siepe come confine del mondo, come limite dove il suo sguardo arriva più distintamente? La mia siepe è la Sicilia; una siepe che chiude antichissime civiltà e necropoli e latomie e telamoni spezzati sull’erba e cave di salgemma e zolfare e donne in pianto da secoli per i figli uccisi, e furori contenuti o scatenati, banditi per amore o per giustizia» (Quasimodo 1996, p. 279).
|
Da quella siepe viene il canto di Quasimodo, come egli stesso dichiara in quel discorso, negando polemicamente che il suo paesaggio sia «mitologico o parnassiano»: là, come recitano i titoli di alcune celebri liriche delle prime quattro collezioni pubblicate dal poeta, sono L’Ànapo, le Latomìe, la Strada di Agrigentum, la Salina d’inverno; là spande il suo profumo L’eucalyptus, e Ride la gazza, nera sugli aranci.
Del resto, l’«azzurra siepe» è anche interlocutrice privilegiata di una lirica come Parola, composizione chiave di Òboe sommerso (1932), nella quale convergono una volta per tutte poesia e poetica: «Tu ridi che per sillabe mi scarno / e curvo cieli e colli, azzurra siepe / a me d’intorno». Si susseguono, in essa, suoni e paesaggi, «stormir d’olmi», «voci d’acque trepide», nuvole, colori, luce; poi una nuda, statuaria figura femminile «in armonia di forme». Questa, appunto, la parola per la quale il poeta si “scarnava” all’inizio: «Ma se ti prendo, ecco: / parola tu pure mi sei e tristezza». Qui è la radice della poetica quasimodiana: «poetica della parola» secondo la formulazione di Oreste Macrì da tutti – compreso l’autore – accettata (Macrì 1938), cui corrisponde una poesia infatuata di suono, nella quale le sillabe divengono cosmo, cose, paesaggio, consolazione, tormento, evocazione, senza che ad esse soggiaccia uno spessore ontologico.
|
«La poetica della parola, conclude, dunque, in Salvatore Quasimodo l’avventura ermetica della poesia pura» (Pozzi 1965, p. 191). Tutta la prima fase della sua attività, quella che giunge sino alle Poesie del 1938, può essere iscritta a tale insegna. Prevalgono, in essa, un cupo pessimismo e una concentrazione esclusiva, narcisistica, sulle pene e le ansie personali. Nella stagione successiva, che si apre con la pubblicazione delle Nuove Poesie nella raccolta Ed è subito sera nel 1942, e soprattutto di Con il piede straniero sopra il cuore (1946) e di Giorno dopo giorno (1947), per chiudersi con Dare e avere (1966) poco prima della morte, Quasimodo mette in campo almeno tre operazioni: allarga in primo luogo le immagini, aprendosi a un tentativo di discorso narrativo; innesta, poi, il tema civile, politico e storico su quelli lirici, secondo il dettame da lui individuato sin dal 1946 e ribadito nel discorso di Stoccolma per il conferimento del Nobel su Il poeta e il politico: compito del poeta è «rifare l’uomo» (Quasimodo 1996, pp. 273, 305-317); amplia infine il proprio orizzonte dalla Sicilia verso il mondo che nel frattempo scopre o ritrova dentro di sé: la Grecia, ma anche la Russia, l’Irlanda, il Messico.
Spiccano, qui, alcune composizioni che l’antologizzazione scolastica ha reso canoniche per l’identità dell’Italia post-fascista e post-bellica e che il consesso degli Accademici di Svezia vede come essenziali nella motivazione per il conferimento del Nobel. Alle fronde dei salici, che si apre con l’interrogazione «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze», termina con il richiamo biblico già evocato dal Verdi del Nabucco in Va, pensiero: «Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento». Accanto all’icona tremenda dell’Uomo del mio tempo che si manifesta, con quello «della pietra e della fionda», «dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura», risuona un doloroso e furibondo Lamento per il Sud; assieme alla incrollabile affermazione identitaria di Il mio paese è l’Italia prendono corpo l’invocazione di Thànatos Athànatos al «Dio dei tumori» e «del fiore vivo» e il canto per Auschwitz. È la forza retorica, spesso artatamente apocalittica, del secondo Quasimodo.
|
Egli ha acquistato nel frattempo una voce nuova – e nuova fama insieme a rinnovati attacchi – con le sue traduzioni: che vanno progressivamente allargandosi dal Vangelo secondo Giovanni alle Georgiche virgiliane, dai Carmi di Catullo all’Odissea, dai drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare e Molière alle Metamorfosi di Ovidio, ma che sono innanzitutto i Lirici greci, usciti originariamente nel 1940 e poi ripubblicati, con aggiunte e correzioni, numerose volte: frutto, dichiara l’autore, di «anni di letture per giungere, mediante la filologia, a rompere lo spessore della filologia; a passare cioè, dalla prima approssimazione laterale linguistica della parola al suo intenso valore poetico» (Quasimodo 1996, p. 280). L’operazione è invero più complessa e spesso del tutto avulsa dalla filologia. Quasimodo «sceglie anzitutto un gruppo di liriche e di frammenti, di testi in vari casi pervenuti fino a noi incompleti; li traduce forse anche sedotto dal casuale stato frammentario... Li adatta; li trasforma, anzi, in completa autonomia; li unisce, persino, a dar l’impressione di una lirica unitaria che in realtà è inesistente» (Finzi 1996, pp. 1198-1199). Se il tipico esempio di tale arbitraria procedura è Tramontata è la luna di Saffo, nel quale vengono fusi ben cinque frammenti separati, è però vero che quando Quasimodo si tiene al testo originario la traduzione acquista spesso un timbro che trasferisce all’italiano moderno una icasticità “classica”. È il caso, ad esempio, del celebre epitaffio di Simonide di Ceo Per i morti alle Termopili: «Di quelli che caddero alle Termopili / famosa è la ventura, bella la sorte / e la tomba un’ara»; oppure del canto di Mimnermo, Al modo delle foglie: «Al modo delle foglie che nel tempo / fiorito della primavera nascono / e ai raggi del sole rapide crescono, / noi simili a quelle per un attimo / abbiamo diletto del fiore dell’età». La relazione dell’Accademia svedese per il Nobel menziona infatti esplicitamente il «grande contributo» di Quasimodo «come traduttore della letteratura dell’antichità classica, che ora forma lo sfondo omogeneo del suo proprio lavoro» di poeta. Nei Lirici greci rimangono una voce e una parola che non solo hanno messo in moto il mutamento del suo stile tra gli anni Trenta e Quaranta, ma che rappresentano forse ancora oggi il momento più alto di una “transcreazione”, una vera e propria lirica originale che congiunge la Grecia antica all’Italia novecentesca.
|
Letteratura citata
Anceschi 1940: L. Anceschi, prefazione a Lirici greci, Milano 1940.
Anceschi 1942: L. Anceschi, Saggi di poetica e di poesia, Firenze 1942.
Bo 1939: C. Bo, Condizione di Quasimodo, in Otto studi, Firenze 1939.
Finzi 1969: G. Finzi, Quasimodo e la critica, Milano 1969.
Finzi 1996: G. Finzi, Quasimodo traduttore di classici, in S. Quasimodo, Poesie e discorsi.
Macrì 1938: O. Macrì, La poesia della parola e Salvatore Quasimodo, prefazione a S. Quasimodo, Poesie, Milano 1938, poi in Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, Firenze 1941.
Pozzi 1965: G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino 1965.
Quasimodo 1996: S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G. Finzi, Milano 1996 (X edizione riveduta e ampliata).
|
|