testo di catalogo
di Piero Boitani
Nel 1975 Eugenio Montale dichiarò di aver scritto, in tutta la sua carriera poetica, «un solo libro», di cui aveva offerto «prima... il recto, ora... il verso» (Montale 19961, p. 1724). Si riferiva alle due fasi della propria poesia: la prima, che copre il periodo dal 1925 al 1956 e le collezioni canoniche Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro; e la seconda, che si inaugura con Satura nel 1971 e, passando per Diario del ’71 e del ’72 (1973), giunge sino al Quaderno di quattro anni (1977), agli Altri versi inclusi nell’Opera in versi (1980) e, oltre la morte del poeta, al Diario postumo (1991 e 1996). Le prime tre raccolte vanno prese, dunque, secondo un’altra dichiarazione del poeta, come «tre cantiche, tre fasi di una vita umana» (Zampa, in Montale 19962, p. liii), mentre l’intera opera poetica costituisce un unico corpus che copre tutto il Novecento italiano. Se, come è stato spesso detto, la prima fase costruisce un «romanzo» autobiografico del tipo di quello proposto da Dante nella Vita nuova e poi nella Commedia, o dal Petrarca nel Canzoniere, la seconda rappresenterà una sorta di “metaromanzo”, i cui temi sono la stessa poesia e l’attesa, nella vecchiaia, del “dopo”.
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Apparentemente separati da uno iato di tono e di stile, i due stadi sono in realtà uniti, oltre che da precise continuità, dall’impulso che guida Montale fin dall’inizio, quello di «torcere il collo ... all’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica» (Montale 1996, p. 1480). Il poeta considera infatti la «tradizione», già nel 1925, «non un morto peso di schemi, di leggi estrinseche e di consuetudini – ma un intimo spirito, un genio di razza, una consonanza con gli spiriti più costanti espressi dalla nostra terra» (Montale 1996, pp. 11-12), e tuttavia egli interpreta la propria profonda affinità con tale tradizione, lo stile che da essa vuole rielaborare, e il «genio» di cui parla come una questione di «buon costume», «lunga pazienza», «coscienza e onestà» (Montale 19961, p. 14). La poesia di Montale, che pur nasce al punto di una «vera saturazione culturale» (Contini 1974, p. 64), si annuncia allora sin dagli esordi come un «sermo» per tanti versi e programmaticamente «humilis» di contro all’aulicità della tradizione italiana: «i poeti laureati», egli scrive nella celebre seconda lirica degli Ossi, I limoni, «si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti». Egli invece ama «le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni» (Montale 19962, p. 11). Che, poi, quel «sermo humilis» divenga, per il lettore italiano del XXI secolo, «sublimis», è dovuto al fatto che il linguaggio poetico montaliano si è nel frattempo affermato come classico di tutta un’epoca, al suo riecheggiare e rivisitare la voce che da Dante passa a Foscolo e Leopardi, e infine al suo trasformare l’«occasione» lirica in «oggetto» vero e proprio secondo quella poetica del «correlativo oggettivo» che Montale, indipendentemente da T.S. Eliot ma con lui in significativa consonanza, elabora istintivamente (Montale 1996, pp. 1481-1482). In altre parole: al fatto che la «sparuta anguilla» de I limoni diventi per noi tutti, in Italia e in generale nella cultura occidentale, attraverso una metamorfosi d’allegoria in simbolo (Assunto, in Ramat 1966, pp. 20-38), L’anguilla che, «sirena / dei mari freddi che lascia il Baltico / per giungere ai nostri mari», si fa «torcia, frusta, / freccia d’Amore in terra», «anima verde», «scintilla», «iride breve» ((Montale 1996, p. 262).
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Anche il «romanzo» della poesia montaliana principia In limine, sulla vera e propria soglia, cioè, che schiude gli Ossi. Ecco, lì, il vento che entrando nel «pomario» «vi rimena l’ondata della vita» e, di contro ad esso, il «morto / viluppo di memorie», che mostra quell’orto come ormai un «reliquiario». L’anelito nostalgico al giardino edenico dell’infanzia si spenge subito al contatto con l’«erto muro» della realtà interiore, esistenziale, figurata da quella esterna, e il celebre «tu» montaliano, che percepisce il «frullo», sa bene, fin dall’inizio, che esso «non è un volo». Chiuso dentro «questo lembo / di terra solitario» che si rivela per «crogiuolo», il poeta avverte tuttavia la possibilità, e la speranza, di una fuga salvifica: «Se procedi t’imbatti / tu forse nel fantasma che ti salva». Per realizzarle, dovrà cercare «una maglia rotta nella rete / che ci stringe». Tutta la “storia” narrata nella lirica di Montale rappresenterà l’inseguimento, aldilà del «male di vivere», di tale «maglia rotta», dello «sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità». E ogni sua lirica «consisterà, da allora, nella definizione di un fantasma che abbia la possibilità di liberare il mondo nascosto» (Contini 1974, p. 20). Il «fantasma» prenderà spesso corpo, nome e memoria della donna amata, secondo un modulo che risale al Dolce Stil Nuovo e a Dante: Esterina, Arletta, Gerti, Liuba, Dora Markus, Clizia, Iride, Volpe, le figure femminili e ormai mitiche che accompagnano la “persona” di Arsenio e lo aiutano nel sopravvivere.
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Immobilità, irripetibilità, non-ritorno, estraneità, incomprensione, assenza, separazione, sono i momenti (e i temi) negativi di questa “storia”, al cui centro si trovano l’impossibilità di essere («codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo), e una drammatica lotta con l’oggetto che è descrizione, asserzione, e infine nominazione precisa e ossessionata delle cose («un mare pulsante, sbarrato da solchi, / cresputo e fioccoso di spume»), alla ricerca di una «verità puntuale» e nel tentativo «di fermare l’effimero, di rendere non fenomenico il fenomeno» (Montale 19961, pp. 1479, 53). Proprio fra le cose Montale rinviene e sviluppa le immagini che dominano la sua poesia: innanzitutto il «mare fermentante» degli Ossi e in particolare di Mediterraneo, che più tardi il poeta avverte essere per lui «dovunque» (Montale 1996, p. 1482); e poi l’acqua – fiume, polla, gorgo – e il suo opposto, l’aridità; il muro, il vento, le nuvole; e ancora il volo, gli uccelli, le ali; la tempesta, la nebbia; la luce e le sue fonti, dall’alba al «disteso mezzogiorno» al «meriggiare», al tramonto, l’ombra, il lampo, il girasole; lo specchio, luogo di autoconoscenza; il cerchio e la ruota, rappresentazioni del destino che costringe; le piante e la vegetazione, simboli degli esseri umani. Un paesaggio tutto montaliano si definisce fin dall’esordio in precisa geografia. Quando, da Le occasioni a La bufera, il poeta lo immette nella Storia, proiettando «la Selvaggia o la Mandetta o la Delia... dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione» e affidandosi a lei, «donna o nube, angelo o procellaria» (Montale 19961, p. 1483), allora – come recita la motivazione dell’Accademia di Svezia per il Nobel conferitogli nel 1975 – la «cupa coscienza» diviene «espressione individuale di dolori e travagli collettivi». A contatto con la Seconda Guerra Mondiale, con la follia del fascismo e del nazismo, con la guerra fredda, il messaggio acquista, pur sempre legata a quella esistenziale, una dimensione pubblica e apocalittica, come in Notizie dall’Amiata, La bufera, Proda di Versilia, La primavera hitleriana, Sogno del prigioniero.
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Sempre più presenti si fanno i morti, «depositari del ritornante passato» che «acquistano... pienezza di vita» e il cui «mito» era già emerso nel tessuto degli Ossi e in particolare in Meriggi e ombre, dove ad essi «è tolto ogni riposo / nelle zolle: una forza indi li tragge / spietata più del vivere, ed attorno, / larve rimorse dai ricordi umani, / li volge fino a queste spiagge, fiati / senza materia o voce / traditi dalla tenebra» (Montale 1996, p. 96; Contini 1974, p. 85). Ne Le occasioni essi ritornano, quasi irraggiungibili, nella consunzione generale: «Oh il gocciolìo che scende a rilento / dalle casipole buie, il tempo fatto acqua, / il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento, / il vento che tarda, la morte, la morte che vive!» (Notizie dall’Amiata, in Montale 1996, p. 191). E si allontanano, rimpianti, ne La bufera, dove pure ricompaiono le ombre della madre e del padre: «I miei morti che prego perché preghino / per me, per i miei vivi com’io invoco / per essi non resurrezione ma / il compiersi di quella vita ch’ebbero / inesplicata e inesplicabile, oggi / più di rado discendono dagli orizzonti aperti» (Proda di Versilia, in Montale 1996, p. 253).
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La bufera e altro terminava idealmente, nel 1956, con un Piccolo testamento che lasciava «solo quest’iride» «a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare», «una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione». Ma nel quarto di secolo che ancora gli rimaneva da vivere Montale doveva comporre un lungo e splendido «de senectute» cosparso di testamenti (Zampa, in Montale 1996, p. L). Meditando il “dopo” suo e delle ombre che sempre più si affollano attorno a lui, confuso e stupito dal mondo sempre più rapidamente cangiante della fine secolo, il poeta si lascia ora andare, allenta il ritmo, dà libero sfogo all’ironia e all’epigramma, a una saggezza satirica e sorridente. Riflette sulla poesia e sul suo destino, come aveva fatto nel 1975 nel discorso di Stoccolma in occasione del conferimento del Nobel. Fissa i punti. Non rinuncia all’understatement esistenziale e antiretorico che è stata sua costante nel testamento di Diario del ’71 e del ’72, Per finire: «Raccomando ai miei posteri / (se ne saranno) in sede letteraria, / il che resta improbabile, di fare / un bel falò di tutto che mi riguardi / la mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti. / Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere / ed è già troppo vivere in percentuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose. Troppo spesso invece piove / sul bagnato». Ma proclama anche in maniera sorprendentemente esplicita il proprio amore per la terra in p.p.c., in quello stesso Diario: «La mia valedizione su voi scenda / Chiliasti, amici! Amo la terra, amo // Chi me l’ha data // Chi se la riprende» (Montale 1996, pp. 520, 468). È capace di annunciare, nel Diario postumo che vuole pubblicato soltanto dieci anni dopo la propria morte, L’investitura ufficiale del «Serenissimo», Andrea Zanzotto, a suo successore nel canone poetico italiano. Dichiara, per così dire oltre la morte, di non sapere «se un testamento in bilico / tra prosa e poesia vincerà il niente / di ciò che sopravvive». Ma, «ora che s’approssima la fine», getta la «[sua] bottiglia che forse darà luogo / a un vero parapiglia». «Non vi è mai stato», crede, «un nulla in cui sparire», perché «già altri grazie al ricordo son risorti». Raccomanda di lasciare in pace i vivi «per rinvivire / i morti». E conclude: «nell’aldilà mi voglio divertire» (Montale 1991, pp. 32, 24).
Letteratura citata
Assunto, in Ramat 1966: R. Assunto, Per una teoria della poesia di Montale, in S. Ramat (a cura di), Omaggio a Montale.
Contini 1974: G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino 1974.
Montale 1991: E. Montale, Diario postumo, Milano 1991.
Montale 19961: E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Milano 1996.
Montale 19962: E. Montale, Tutte le poesie, a cura e con introduzione di G. Zampa, Milano 1996.
Ramat 1966: S. Ramat (a cura di), Omaggio a Montale, Milano 1966.
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