testo di catalogo
di Franca Angelini
Presente o no l’attore, i testi di Dario Fo sono stati tra i più rappresentati nel mondo, in Danimarca, Svezia, Olanda, Germania, Spagna, Grecia, mentre a Parigi, nel gennaio 1974 alla sala Gémier del Palais de Chaillot e a Nancy due anni dopo, Mistero buffo ha dato il via a una serie di saggi critici, edizioni e traduzioni delle opere. Il Nobel all’attore-autore nel 1997 ha avuto in primo luogo il grande merito di ricordarlo, sottolineando così la totalità della sua presenza nella cultura contemporanea per la varietà delle sue competenze teatrali e per la sua caratteristica di provocare incontri tra tradizioni diverse. Ad esempio sempre a Parigi, alla Comédie Francaise nell’ottobre del 1990, si segnalano le sue felici regie di due farse di Molière, il Medico per forza e il Medico volante che, sottolineando la presenza della commedia dell’arte nella costruzione comica dell’autore francese, attuavano una felice miscela tra le drammaturgie dei due paesi; e, mediante la riesumazione di “lazzi” ricondotti alla loro violenza originaria, obbligavano gli attori francesi, abituati a lavorare prevalentemente sulla parola, a un uso totale del corpo e all’integrazione della parola col gesto. La stessa cosa avveniva, come Fo racconta in una intervista pilotata da Luigi Allegri (Fo 1990, p. 87), con attori inglesi a Londra, dove due sue commedie, Non si paga, non si paga… e Morte accidentale di un anarchico, sono rimaste in scena per mesi con grande successo.
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Tali esempi concludono una complessa carriera di attore, di inventore di testi, di regista, di un artista che pone la fusione, la miscela, il veloce procedere avanti col volto rivolto indietro alla base della sua arte, continuamente slittando dal passato al presente e infine ricongiungendo così la scissione del tempo come la scissione tra corpo e parola nell’arte dell’attore.
Slittare separando e congiungendo, creare in questo un ritmo costante e inarrestabile costituisce il centro di un teatro che spazza via dalle antiche farse la polvere del tempo e ripropone un repertorio dimenticato in versione moderna, un repertorio “basso” in versione “alta”. Padre degli affabulatori, Fo ha occupato tutti gli spazi dello spettacolo, dai teatri alle piazze alla televisione, inventando un pubblico di spettatori partecipi e un teatro di indignazione civile e di protesta; un teatro epico, costruito però coi materiali della farsa e del monologo medievale e basato più sull’energia dell’attore che sulla imposizione delle idee e sulla didattica come nell’esempio di Brecht.
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All’inizio dedito specialmente alla pittura e agli studi di architettura, Fo arriva al teatro recitando nel 1952 i brevi monologhi del Poer nano e formandosi come mimo alla scuola di Jacques Lecoq. Senza mai del tutto dimenticare la sua vocazione al disegno e alla pittura. L’attore passa quindi dal monologo grottesco allo sketch della rivista con Franco Parenti e Giustino Durano ne Il dito nell’occhio e Sani da legare (1953 e 1954); al cinema come sceneggiatore e come attore nello Svitato di Carlo Lizzani.
Costituita una sua compagnia con Franca Rame nel 1959, propone la commedia di costume, che via via prende colori più vividi di intervento e critica sociale: tra l’altro con Gli arcangeli non giocano a flipper (1959), Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), Settimo: ruba un po’ meno (1964), La colpa è sempre del diavolo (1965), La signora è da buttare (1967). Il 1962 è l’anno della sua partecipazione televisiva a Canzonissima e della clamorosa interruzione per protesta contro la censura. In tale varietà e molteplicità di esperienze va segnalato l’incontro col Nuovo Canzoniere Italiano, con cui mette in scena Ci ragiono e canto, nel 1966. È un’esperienza centrale, per la conoscenza di temi folklorici e di cultura popolare e per la musica, che sarà un referente esplicito o nascosto nelle sue successive maniere di mettere in scena e di recitare, con tempi, scansioni, ritmi musicali.
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Negli anni successivi, il teatro di Fo segue, commenta, elabora gli eventi che scandiscono la storia politica in una specie di continuo giornale parlato come quelli dell’avanguardia rivoluzionaria sovietica: eventi italiani, tra l’altro in L’operaio conosce trecento parole… del ’69, oppure Morte accidentale di un anarchico del ‘70, oppure Il Fanfani rapito del 1975, e mondiali, come Guerra di popolo in Cile, oppure Fedayn su Al Fatah. Ma l’urgenza dei temi rischia di mettere in ombra la qualità drammaturgica di questo teatro, i suoi meccanismi perfetti che coniugano modalità lontane, antiche e moderne e di diverse culture, compresi gli esercizi sulle tecniche orientali di rappresentazione. La miscela che ha reso famoso e ovunque rappresentabile il teatro di Dario Fo è tale elaborata scrittura scenica, comprendente parole gesto spazio, nonché il meccanismo di controllo dell’attore, prima e oltre l’improvvisazione, cioè la sua capacità di improvvisare su tema da aggiornare nella varietà degli eventi e degli spettatori.
È la miscela di Mistero buffo del 1969, in cui si ritrova il monologo giullaresco e la tradizione del teatro medievale, proposto nel dialetto contadino di Ruzante, suo autore prediletto, e nelle lingue della commedia dell’arte. Il monologo consente la moltiplicazione dei personaggi delle voci e delle figure sostenute da un solo attore, l’uso del dialetto per variarlo all’infinito in modo espressivo ed espressionista. Da questo tipo di scrittura deriva il grammelot, una lingua comica inventata, derivata alla lontana dal pavano, lingua onomatopeica, mistione di vari linguaggi, parola assunta dall’attore per accompagnare i suoi gesti, che consente di conseguire il massimo dell’espressività in modo surreale lontano da referenze naturalistiche: lingua che, per questo motivo, consente anche il massimo della libertà, secondo il modello del fool shakespeariano, paradossale e surreale, il folle che rovescia l’immagine e la parola raggiungendo così la verità. Il fool ha una radice comune con la marionetta e il teatro di animazione, già presenti nella sua Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e medi del 1968. Così Fo si fa mimo, giullare, marionetta, nel senso aereo e spirituale che Kleist le attribuisce nel suo famoso saggio Sul teatro di marionette, che accoglie e riassume in questa figura l’essenza ultima del teatro e della sua spiritualità.
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Anche in questo senso Fo propone la sua arte di attore, tra parola pesante e gesto leggero. E quando illustra i suoi libri, come in Johan Padan a la descoverta de le Americhe, si rappresenta come una figura che vola leggera, quasi pilotata da invisibili fili, che piroetta animata da un ritmo interno altrettanto invisibile, corpo parlante che ha messo così a frutto la lezione primaria di Lecoq, ora arricchita da una espressività snodata e folle, mossa più dalla musica che da referenze realistiche.
Infatti, interrogato in Francia sulla sua messa in scena dell’Histoire de tigre et autres histoires (“Theatre public“, maggio-giugno 1981), l’attore dichiara di porre al centro sia delle trame sia dell’attore il ritmo, insieme ricordando la “violenza” e le scansioni ritmiche sulle quali si costruivano in passato i riti teatrali. Il ritmo è tutto, come dicevano Mejerchol’d e Majakowskij. In Fo il ritmo è la pasta che unisce la miscela dei generi, gli slittamenti e l’uso ironico del tempo, la critica al presente ambientata al passato e che sovrintende sia al comportamento dell’attore sia alla drammaturgia testuale. Così sintetizzava, nella citata intervista del 1990, ricordando la sua attività di sceneggiatore cinematografico e valorizzando al massimo questa esperienza: «Conta moltissimo: la sintesi, la chiave, la velocità, il ritmo, il taglio delle scene e la chiusura comica e il gioco parallelo; soprattutto preparare in anticipo le macchine drammaturgiche, che scatteranno in seguito» (Fo 1990, p. 92).
L’attore dunque ci rivela come funziona in generale il linguaggio del teatro, la scena che parla, lo spazio che sintetizza parole gesto e suono, la parola che definisce e muove. E ci rivela insieme come funziona il “suo” teatro, basato su quella che chiama «scrittura a rovescio», elaborata cioè sul togliere, sul prosciugare le battute e appunto sull’imporre un ritmo oltre il senso letterale e oltre la “logica”, raggiungendo così l’estrema sintesi della sequenza narrativa. Dalla capacità di analizzare il suo teatro, deriva l’attività come maestro, documentata dal Manuale minimo dell’attore (Fo 1987); dove spiega differenze e passaggi dalla costruzione dello sketch con attore solo alla creazione del coro e spiega il rapporto tra gesto e parola, da attore solista che si sdoppia e moltiplica, attraverso tutti i passaggi della parola, fino a raggiungere la «grande sintesi» in cui «tema, luogo deputato, personaggio» possono stare «in una sola frase».
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Centrale dunque, con l’attore solo in scena o accompagnato dal “coro”, il monologo, usato in tutti i suoi possibili aspetti, come precisa nell’intervista citata: «Non sempre [il monologo] significa racconto conversante. C’è anche il monologo beckettiano che è anti-epico, è letterario completamente. Tempi, ritmi, suoni, non raccontano, ma danno delle emozioni, delle sensazioni, delle angosce» (Fo 1990, p. 102). Dunque la lingua per eccellenza del suo monologo, il grammelot, funziona anche in questo modo antiepico, per la risonanza emotiva nel pubblico; e in questo sarebbe la differenza dal monologo beckettiano, costruito sulla “esclusione” del pubblico, che invece sta al centro della drammaturgia di Fo. Passando dal monologo al dialogo, si tocca il conflitto che provoca lo slittamento da comico a tragico in cui l’attore eccelle, quando evoca episodi che si tingono di nero come le stragi, il terrorismo, le morti individuali. Da questo conflitto nasce «l’attesa, la meraviglia, la sorpresa, i silenzi, la paura, i ritmi, il cambiar di tono, la catarsi finale». Così Fo raggiunge il pubblico, provocando l’indignazione insieme alla risata e aggiornando i suoi interventi con quella sagacia che appartiene principalmente agli attori di provenienza “popolare” e del varietà.
Come in questo teatro, il referente centrale della sua performance è il pubblico, cui si destinano in modo preminente gli slittamenti dalla scena al fuori scena, dal fantastico e surreale al reale; cui si destinano la dinamica tra predisposto e improvvisato, le parole e i gesti che determinano la tensione dell’attesa, la partecipazione o il rifiuto, il consenso o il dissenso fino al catartico applauso finale. Dunque a ragione si può, per questo teatro, parlare di una “invenzione del pubblico”, di quella visibile e consapevole collaborazione attiva tra destinatore e destinatario, che determina le uscite e le entrate dell’attore dal passato della storia al presente della politica e della società. Insieme al pubblico, Fo deve inventare nuovi spazi teatrali, altro punto di eccellenza del suo teatro, di novità rispetto alla norma (insieme alle avanguardie teatrali ma al di fuori), seguendo l’esempio del giullare che elegge la piazza, o l’esempio dell’intellettuale moderno che porta le sue performances nei vari luoghi di lavoro, e del moderno uomo di teatro che sorprende ed emoziona il pubblico anche con la suggestione di uno spazio inconsueto.
Oggi tutto questo sembra appartenere a una storia del teatro conclusa: ma una generazione di comici come Paolo Rossi o monologanti epici come Marco Paolini sembrano proseguire variando l’esempio di Fo: nei due sensi, epico e antiepico del monologo, nel modo caldo dell’adesione alle idee e alle emozioni o nel modo freddo della distanza umoristica, del ribaltamento comico, del “mondo alla rovescia” degli antichi carnevali trasferiti nella tragicommedia dell’attualità.
Letteratura citata
Fo 1987: D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Torino 1987.
Fo 1990: D. Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, Bari 1990.
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