Ultime luci (1634-1642)
Galileo non scontò la sua reclusione romana nelle prigioni del Sant'Uffizio, ma a Villa Medici, per gentile concessione del papa, che presto lo autorizzò a prendere la propria villa «in luogo di carcere». A Roma era rimasto quasi un anno e la lontananza dalla sua città gli era sempre più insopportabile, nonostante il sostegno di chi gli voleva bene e l'assiduità epistolare della figlia Virginia, che gli avevano permesso di non tagliar mai il filo degli affetti. Ora avrebbe potuto raggiungere di nuovo Firenze, fermandosi a Siena ad attendere l'autorizzazione definitiva, ospite dell'arcivescovo Ascanio Piccolomini. Nel frattempo, della sentenza di condanna e dell'abiura era stata data pubblica lettura ovunque, di fronte a «più mattematici e filosofi che avessino potuto avere», come raccontava il Guiducci, che era stato costretto a presenziare a una di queste kermesse, perché i suoi superiori «tenevano ordine di Roma». Per paura di perquisizioni e sequestri l'allievo Niccolò Aggiunti e Geri Bocchineri, fratello della nuora e amico devoto, avevano fatto sparire in quattro e quattr'otto tutte le scritture di Galileo che sarebbero potute risultare compromettenti. Il clima non era dei più distesi.
Ma Galileo non aveva requie. Non potendo più guardare in cielo, guardava in terra, e nulla cambiava nel suo modo di guardare. A Siena, sempre in regime di detenzione, si buttò a testa bassa in una discussione sulle cause della tromba d'acqua, ammettendo l'esistenza del vuoto «se non naturale, almeno violento» e incornando un altro dei principi cardine della fisica aristotelica, l'horror vacui, la ripugnanza della natura al vuoto, tenuto dalla Chiesa sotto stretta sorveglianza. Una denuncia anonima contro di lui e contro l'arcivescovo Piccolomini per la condotta sconveniente tenuta a Siena arrivò al Sant'Uffizio, ma fortunatamente non ebbe alcun seguito. Galileo, nel frattempo, era partito.
A Firenze si trovò confinato nella sua villa al Pian de' Giullari. Solo. Tanto da rassegnarsi al non poter terminare la sua carcerazione «se non in quella commune, angustissima e diuturna». Non poteva ricevere nessuno, figurarsi «far accademie, ridotti di gente, magnamenti o altre simili dimostrattioni di poca reverenza». Così era stato disposto dal papa. Non poteva scendere a Firenze per curarsi. Ogni richiesta gli fu rifiutata, anche con una certa brutalità. Il ritorno a casa, perciò, gli fu di poco sollievo, e le cose dovevano ancora inasprirsi contro di lui: pochi mesi dopo, a soli trentatré anni, Virginia morì di una malattia fulminante. Galileo ne incolpò la sua vicenda processuale e il dissidio fra l'amore di figlia e i vincoli ai voti religiosi che dovevano averla fiaccata nel fisico e nel morale. Era prostrato e in balia di turbinose reazioni psicosomatiche: «l'ernia è tornata maggior che prima, il polso fatto interciso con palpitazione di cuore; una tristizia e melanconia immensa, inappetenza estrema, odioso a me stesso, et insomma mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta figlia». Ma per lui, da Roma, nessuna pietà, nessun allentamento delle maglie che lo imbrigliavano.
E non era finita. Su Galileo si stava per abbattere uno dei peggiori supplizi che il destino potesse riservargli: la cecità. Nel giro di pochi anni avrebbe perso l'uso di entrambi gli occhi e sarebbe stato costretto, incapace di rinunciare ai suoi studi, a crearsi un'equipe di allievi e amici volenterosi che scrivessero per lui, leggessero per lui, guardassero per lui, vedessero per lui.
Or pensi Vostra Signoria - si confidava con Elia Diodati, assiduo corrispondente da Parigi - in quale afflizione io mi ritrovo, mentre che vo considerando che quel cielo, quel mondo e quello universo che io con mie maravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni avevo ampliato per cento e mille volte più del comunemente veduto da' sapienti di tutti i secoli passati, ora per me s'è sì diminuito e ristretto ch'e' non è maggiore di quel che occupa la persona mia.
Il «continuato carcere» di Arcetri, isolato e legato a ricordi laceranti gli riusciva sempre più insostenibile. La sua desolata condizione di totale oscurità e il sempre maggior bisogno di cure lo spinsero a chiedere nuovamente a Roma il permesso di poter vivere nella sua casa di città. L'Inquisizione di Firenze mandò un medico a visitarlo, che lo trovò «tanto mal ridotto» da avere «più forma di cadavere che di persona vivente». I rischi erano ormai limitati e l'autorizzazione si poteva anche dare. Galileo ottenne il permesso di risiedere nella casa di Firenze, ma non doveva conversare con nessuno, ancor meno del moto della Terra. Poteva andare a messa la domenica, ma senza incontrare anima viva. E non erano divieti di facciata. Sui movimenti di chi andava e veniva da casa sua fu esercitato un controllo serrato, e ne fu inibito l'ingresso a chiunque fosse giudicato anche solo vagamente una minaccia.
Ma Galileo era Galileo. E pur nella completa débacle che lo aveva colpito nella salute, negli affetti, nella dignità personale, e che avrebbe tolto a chiunque ogni stimolo, non riusciva, neanche volendo, ad attaccare le idee al chiodo. Scriveva, già cieco, al servita Fulgenzio Micanzio, uno degli amici più stretti che lo sostennero negli ultimi anni:
nelle mie tenebre vo fantasticando or sopra questo or sopra quello effetto di natura, né posso, come vorrei, dar qualche quiete al mio inquieto cervello: agitazione che molto mi nuoce, tenendomi poco meno che in perpetua vigilia.
Brandelli manoscritti di un testo da lui composto, infatti, circolavano per l'Europa già da anni, passando di mano in mano clandestinamente. Assecondando le richieste e i pungoli a pubblicarlo che gli venivano da più parti, da dentro e fuori l'Italia, e pensando certo anche a una forma di riscatto dalle vessazioni subite, Galileo iniziò, tramite amici e conoscenti, complesse trattative nei luoghi dove si aspettava maggior libertà: Venezia, Tolosa, Lione, la Germania. Molti sapevano, nessuno diceva. Non fu facile: quale tipografo se la sarebbe sentita di rischiare denaro, pubblicando un'opera nuova di un autore illecito sulla cui testa pendevano pesanti divieti? Già il Landini col Dialogo si era trovato a mal partito. Se la sentirono gli Elzevier, tipografi di Leida, fra i più rinomati allora in Europa, che per la libertà di pensiero e di espressione concessa nel loro paese, e probabilmente anche per la solidità della loro posizione, calpestarono tranquillamente ogni proibizione inquisitoriale. Nel 1638 stamparono i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla mecanica et i movimenti locali, dedicati al conte François de Noailles. Non volendo aggravare la sua condizione, già sul filo del rasoio, Galileo finse la pubblicazione un'iniziativa degli Elzevier, portata avanti a sua insaputa e giuntagli come «inopinata ed inaspettata nuova», avendo lui, «confuso e sbigottito dai mal fortunati successi di altre sue opere», deciso di non pubblicare più nulla. L'istinto di conservazione lo aveva reso avvezzo a simili pantomime. Séguito ideale del Dialogo, i Discorsi ne condividevano i personaggi, compreso l'imbarazzante Simplicio, che però aveva fatto un salto di qualità dimostrandosi meno 'sciocco' e venendo quindi meno 'burlato'. Ma non ne condividevano la coerenza interna. Il vecchio e il nuovo dei suoi studi di fisica coesistevano senza amalgama, mancando a volte di un nesso unitario. Digressioni continue troncavano i fili dell'esposizione. In appendice c'erano perfino gli studi di quando era ragazzo sul centro di gravità dei solidi. Inabile al lavoro di un tempo per la malconcia salute e in ultimo per la sopravvenuta cecità, Galileo non aveva potuto portare tutte le sue indagini a uno stesso livello di approfondimento e si era servito di un bagaglio di esperienze effettuate lungo l'intero arco della sua vita, a diversi stadi di conoscenza e di maturità intellettuale. Ma si trattava pur sempre di un livello irraggiungibile per la media dei colleghi, e il Galileo filosofo del metodo non deludeva di certo. Una delle due nuove scienze, quella attenente alla mecanica, studiava la «resistenza dei corpi solidi ad essere spezzati». Che cosa tiene così coese le parti di un solido, sì da farle resistere unite nonostante sia poi possibile dividerle? Galileo rispondeva ipotizzando una struttura della materia fatta di atomi infiniti e continui e di infiniti vuoti interposti che ne permettono la rottura in parti finite. E per spiegarla si serviva di esempi geometrici, dove gli atomi erano punti, perché a quelle stesse leggi rispondeva il comportamento della materia. E agli aristotelici, che credevano di risolvere il problema con la teoria dell'horror vacui, Galileo dava ancora lezioni sul mondo e opponeva, contro l'idea di una natura non autonoma, il principio che «nulla è contro natura fuori che l'impossibile». Tutto quello che esiste è in natura per il fatto stesso di esistere, compreso l'uomo, che non è altro dalla natura, ma ne è parte, e non è certo lui a decidere a tavolino quello che le aggrada e quello che le repelle.
E anche i moti locali, la seconda delle nuove scienze, riservavano delle sorprese. Galileo aveva capito che moto e quiete sono stati dei corpi che rimangono inalterati finché non intervenga qualche contingenza esterna a mutarli. Aveva capito (grazie anche al piano inclinato) che i corpi, qualsiasi sia la loro natura, cadono nel vuoto alla stessa velocità, e che i differenti tempi di caduta che noi osserviamo nell'esperienza quotidiana dipendono dalle maggiori o minori resistenze opposte alle loro varie gravità. Aveva capito che «il moto naturale dei gravi in discesa accelera costantemente» e che l'aumento della velocità avviene rispetto al tempo trascorso e non rispetto allo spazio percorso, come pur in passato aveva creduto. Aveva capito tutta una serie di questioni minori relative alle proprietà dell'infinito, agli specchi ustori, alla velocità della luce, alla condensazione e rarefazione, alla caduta dei proiettili. Ma soprattutto aveva capito come non solo la logica, utile per verificare la conseguenza delle dimostrazioni e non certo a scoprirle nel maremagnum delle cose, ma neppure la sola esperienza, troppo mutevole, fossero sufficienti a dare una scienza dei fenomeni fisici: era necessario uno sforzo di astrazione dagli «accidenti» e dagli «impedimenti» della materia per cogliere le leggi matematiche che regolano la natura e vederne poi l'attuazione pratica, «con quelle limitazioni che l'esperienza... verrà insegnando».
Ai grandi sistematori dell'universo mondo, come Cartesio, i Discorsi, con tutti quegli «effetti di natura» raccattati un po' qua un po' là, non piacquero. Chi più banalmente si accontentava di studiare la fisica, come Bonaventura Cavalieri, vi trovò un «immenso oceano» di «cose ardue e peregrine, ciascuna delle quali era bastante a far naufragare qual si voglia, per grande ingegno che fosse». Fra i suoi persecutori nessuno si scompose, nonostante geometria, atomi e vuoto. Ormai l'ombra di se stesso, Galileo non spaventava più.
Ma lui non si piegava al sonno della ragione. Pur distratto da materia e moti, poteva forse dimenticare la Luna? Per lei aveva speso gli ultimi sprazzi di vista, osservandone il fenomeno della librazione nel tentativo di capire perché, in tutto il suo periodo di rotazione, noi vediamo una porzione maggiore della metà esatta della sua superficie. A lei dedicò il suo ultimo scritto, dettato nel 1640 per il principe Leopoldo de' Medici, la Lettera sopra il candor lunare. Come mai, quando della Luna vediamo solo uno spicchio, la parte in ombra ci appare illuminata di una flebile luce grigiastra? Piccato contro l'aristotelico Fortunio Liceti, che, continuando a volerla capace di trattenere la luce, non si rassegnava a questa Luna fatta di zolle e polvere e attribuiva il fenomeno ai raggi solari che battevano sull'«etere» circostante, Galileo vi vedeva unicamente il riflesso della superficie della Terra illuminata dal Sole. E al Liceti toccarono le staffilate di sempre, che però non lo distolsero dal pubblicare la Lettera in appendice alla sua risposta. Galileo era già irrimediabilmente cieco, ma di questa Luna terrena, scoperta palmo a palmo, custodiva anche nel buio un ricordo indelebile.
Neppure i ricordi dovevano tuttavia durare a lungo. Indebolito da una febbre che lo aveva tormentato per settimane insieme a dolori diffusi, Galileo morì nella notte fra l'8 e il 9 gennaio 1642, in solitudine, vegliato solo da quegli allievi che a loro rischio e pericolo non lo avevano abbandonato. Non seppe mai dell'universale e clamoroso riconoscimento del suo lavoro, cui avrebbe tanto tenuto, che gli sarebbe stato tributato solo postumo e ne avrebbe fatto uno dei miti del libero pensiero. Del filosofo e dello scienziato ci restano una nuova idea del mondo, ormai nostra, e, che se ne sia o meno consapevoli non avendo esperienza d'altro, la modernità. Dell'uomo sopravvive il ritratto affettuoso di Vincenzo Viviani, al quale si vorrà perdonare se all'obbiettività dello storico possano aver fatto velo le premure di un figlio o l'ammirazione sconfinata per il formidabile talento del maestro.
Fu il signor Galileo di gioviale e giocondo aspetto, massime in sua vecchiezza, di corporatura quadrata, di giusta statura, di complessione per natura sanguigna, flemmatica et assai forte, ma per fatiche e travagli, sì dell'animo come del corpo, accidentalmente debilitata, onde spesso riducevasi in stato di languidezza…
Quantunque le piacesse la quiete e la solitudine della villa, amò però sempre d'avere il commercio di virtuosi e d'amici, da' quali era giornalmente visitato e con delizie e regali sempre onorato. Con questi piacevagli trovarsi spesso a conviti, e, con tutto fosse parchissimo e moderato, volentieri si rallegrava; e particolarmente premeva nell'esquisitezza e varietà de' vini d'ogni paese, de' quali era tenuto continuamente provvisto…
Ebbe assai più in odio l'avarizia che la prodigalità. Non rispiarmò a spesa alcuna in far varie prove et osservazioni per conseguir notizie di nuove et ammirabili conseguenze. Spese liberalmente in sollevar i depressi, in ricevere et onorare forestieri, in somministrar le comodità necessarie a' poveri, eccellenti in qualch'arte o professione, mantenendogli in casa propria finché gli provvedesse di convenevol trattenimento…
Non fu il signor Galileo ambizioso delli onori del volgo, ma ben di quella gloria che dal volgo differenziar lo poteva. La modestia gli fu sempre compagna; in lui mai si conobbe vanagloria o iattanza. Nelle sue avversità fu constantissimo, e soffrì coraggiosamente le persecuzioni delli emuli. Muovevasi facilmente all'ira, ma più facilmente si placava. Fu nelle conversazioni universalmente amabilissimo, poiché discorrendo sul serio era ricchissimo di sentenze e concetti gravi, e ne' discorsi piacevoli l'arguzie et i sali non gli mancavano…
Fu dotato dalla natura d'esquisita memoria; e gustando in estremo la poesia, aveva a mente, tra gl'autori latini, gran parte di Vergilio, d'Ovidio, Orazio e di Seneca, e tra i toscani quasi tutto 'l Petrarca, tutte le rime del Berni, e poco meno che tutto il poema di Lodovico Ariosto, che fu sempre il suo autor favorito e celebrato sopra gl'altri poeti, avendogli intorno fatte particolari osservazioni e paralleli col Tasso sopra moltissimi luoghi… Parlava dell'Ariosto con varie sentenze di stima e d'ammirazione; et essendo ricercato del suo parere sopra i due poemi dell'Ariosto e del Tasso, sfuggiva prima le comparazioni, come odiose, ma poi, necessitato a rispondere, diceva che gli pareva più bello il Tasso, ma che gli piaceva più l'Ariosto, soggiugnendo che quel diceva parole, e questi cose.
- Palazzo delle Papesse
- Villa Il Gioiello
- Ascanio Piccolomini
- Bonaventura Cavalieri
- Elia Diodati
- Fortunio Liceti
- François de Noailles
- Fulgenzio Micanzio
- Geri Bocchineri
- Leopoldo de' Medici
- Niccolò Aggiunti
- René Descartes
- Vincenzo Viviani
- Virginia Galilei (suor Maria Celeste)
- Discesa brachistocrona
- Equilibrio sui piani inclinati
- Galileo e la meccanica
- Galileo e la scienza del movimento
- Isocronismo nella caduta dei gravi lungo una spirale su un paraboloide
- La piuma e la ghinea
- Piano inclinato
- Traiettoria parabolica dei proietti
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Scheda a cura di Sara Bonechi
Data aggiornamento 16/gen/2008